Premium Premium Aldo Fiordelli

Dai cervelli in fuga nascono grandi idee (anche in cantina)

Dai cervelli in fuga nascono grandi idee (anche in cantina)

Storie di enologi e produttori che hanno esportato oltreoceano il proprio know-how. Chi ha voluto la botte grande in Napa e chi ha posto le basi per quelli che si sono rivelati grandi successi, come il Malbec in Argentina e il Sauvignon blanc nel Nuovo Mondo.

Un’esperienza all’estero può cominciare anche evitando un tranello antitaliano. David Cilli è l’enologo di Promontory, Cantina gemella di Harlan Estate in Napa Valley (California). Bottiglie da 400 dollari cadauna, vendute per oltre 1/3 en primeur ai collezionisti. È nato a Siena, ma viene da Montalcino. Anzi, da Buonconvento, “dalla nebbia” tendono a specificare nel paese del Brunello. È l’Italia dei campanili, non si meraviglierà certo chi mastica di vino.

Da Buonconvento alla California

Cilli conosce l’enologo di Harlan che in Toscana per le vacanze gli chiede di fare un giro insieme a Montalcino e a Bolgheri. Due giorni di assaggi durante i quali il giovane enologo si dichiara alla ricerca di una cantina. «Se vuoi venire a fare una vendemmia sei il benvenuto, ma non abbiamo posizioni aperte». La posizione c’era, il bluff serviva solo per vedere se di fronte c’era un “fighetto italiano svogliato” o un giovane determinato a lasciare il segno. Pochi mesi dopo Cilli era enologo di Promontory.

Non facciamone una questione solo economica

Una delle tante storie di migrazione all’estero di enologi e produttori. Al vertice dell’enologia mondiale. Non si va per trovare un lavoro che qua non c’è, come succedeva nel Dopoguerra. E non si va nemmeno per soldi. «In Napa la vita è molto costosa, ma guadagno molto più che in Italia», commenta comunque Cilli. Non per soldi o almeno non solo per quelli, come succede ancora oggi con molti lavori ad esempio nella ristorazione. «Si va perlopiù per curiosità». A dirlo è uno dei pionieri delle migrazioni degli enologi italiani all’estero. Attilio Pagli è l’uomo del Malbec, il profeta del vino argentino.

A caccia di nuove sfide (e di formiche)

«Curiosità, affrontare una sfida totalmente nuova», prosegue Pagli. «È affascinante poter andare in un Paese dall’altra parte del mondo e confrontarsi con situazioni anche al limite del ridicolo. Faccio un esempio: una volta mentre piantavamo nuovi vigneti con Catena (Bodega Catena Zapata, ndr) un contadino del posto ci disse: state attenti alle formiche! Una cosa da ridere sul momento. Poi se non si prendevano provvedimenti, si sarebbero mangiate anche noi. Delle formiche tremende. La formica tagliatrice. Hanno una organizzazione midiciale: una taglia le foglie e le fa cadere e le altre le caricano e le portano via. In una notte fanno fuori una pianta. E dal germogliamento non produce più per quell’anno».

Come Tachis per i Supertuscans

Senza Pagli oggi berremmo ottimi Cahors (Aoc francese dove il Malbec predomina, ndr), ma forse non i vini di Mendoza come li conosciamo. «Il Malbec lo spiantavano tutto perché lo consideravano un’uva di terza categoria». In pratica Pagli sta al Malbec argentino come Tachis ai Supertuscans. Senza di lui, il Malbec chissà che fine avrebbe fatto. La storia è questa. La famiglia Catena (di origini italiane ed emigrata in Argentina da oltre un secolo, ndr) lo chiama per produrre Sangiovese in Argentina. Era il 1993. Pagli, scettico dei primi assaggi, dissuade Nicolas Catena che lo invita a fare un giro nelle proprie vigne per vedere cosa c’è d’interessante da sviluppare secondo lui. La scoperta del Malbec è folgorante, ma va in controtendenza con le convinzioni locali.

Il primo Malbec di Bodega Catena

Nel 1997 producono il primo Malbec. Arrivano gli enologi Roberto Cipresso e Alberto Antonini. I Malbec cardinalizi affinati in 100% di legno francese nuovo diventano una firma del vino argentino. Ma Pagli anticipa ancora tutti con un nuovo stile più leggero, meno legnoso ed estrattivo. «Più di recente stiamo lavorando in questa direzione, ma è quello che sta succedendo in tutto il mondo. Raccolte più precoci, maggiore acidità, meno alcol, botti grandi soltanto nelle Riserve per gli affinamenti più lunghi (almeno 30 mesi, nda) tra 25 e 50 ettolitri. Nel classico non c’è legno e se c’è qualcosa è solo per gli assemblaggi».

Chi ha portato la botte grande nel Nuovo Mondo

A introdurre la botte grande, firma del vino italiano, nel Nuovo Mondo, è con Pagli lo stesso David Cilli. Caparzo a Montalcino, l’Australia, l’incontro con Cipresso e l’Argentina, poi la Napa Valley dove da Montalcino ha portato l’uso della botte grande. «All’inizio a Promontory volevano affinare di più il vino per i tannini austeri che dà questa zona della Napa Valley. Però c’era il problema di affinare di più in barrique e allora hanno preso i primi contatti con Stockinger (ottimo produttore austriaco, ndr) e ordinato la prima botte, ma non avevano idea di cosa fare. Oggi», continua Cilli, «facciamo un uso più discreto del legno, non troppo in stile Napa».

America vs Italia: cambia l’approccio in cantina

Dopo la settima vendemmia americana, David Cilli, classe 1980, mette a fuoco le principali differenze con l’Italia. Qui il consulente è proprio un consigliere, non ci sono protocolli ai quali adattarsi al telefono. La figura del winemaker è centrale. Parte tutto dal vino. Ad esempio l’agronomo risponde al winemaker. E soprattutto l’enologo è coinvolto nel progetto aziendale, nello sviluppo del vino anche come brand.

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© Riproduzione riservata - 20/08/2018

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