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Consorzio del Collio, 60 anni da faro in una terra di sincretismi

Consorzio del Collio, 60 anni da faro in una terra di sincretismi

Assaggi, memorie e progetti: resoconto di un viaggio nel tempo in uno dei territori bianchisti più importanti d’Italia. Per festeggiare il compleanno dell’ente che lo ha fatto conoscere al mondo.

Da 60 anni il Consorzio di Tutela dei vini del Collio è una stella polare in una terra di sincretismi. Per quest’angolo di Friuli che sfuma in terra slovena, una mezzaluna di molli colline incastrata tra le Alpi Giulie e l’Adriatico, dove si mescolano lingue e tradizioni e dove l’arte di fare vino ha radici antiche e profondamente intrecciate col tessuto popolare, l’ente di tutela rappresenta un punto di riferimento fin dalla sua fondazione.
La carta d’identità riporta 31 maggio 1964 e da allora di passi avanti ne sono stati fatti tanti, “i vigneti sono diventati giardini, le cantine cattedrali, le case coloniche ville e relais di charme”. La celebrazione di questo compleanno, il 31 maggio 2024, ha riunito nelle stanze della Fondazione Villa Russiz a Capriva del Friuli alcuni di quelli che questa storia l’hanno cominciata e coloro che continuano a scriverla. Ed è stata l’occasione per rievocare il passato e tratteggiare il futuro.

Consorzio nel 1964 e Doc nel 1968

Quello che sarà uno dei primi Consorzi del vino italiani è nato dall’intuizione del conte Sigismondo Douglas Attems, che ha avuto la lungimiranza di unire i produttori locali, incentivando l’eccellenza della qualità del vino prodotto.
«C’erano tanti vantaggi, ma anche tanti oneri. Alla fine, firmarono in una ventina, il numero minimo per l’istituzione», ha ricordato Michele Formentini, memoria storica del Consorzio che scrisse di proprio pugno l’atto costitutivo, durante il convegno “Collio un viaggio lungo 60 anni”. La legge che disciplinava le denominazioni di origine, del 1963, era cosa fresca e l’iter burocratico per il riconoscimento della Doc, concluso nel 1968, fu un passo pionieristico. «Dal vino sfuso venduto in damigiane ai ristoranti locali, le aziende cominciarono a imbottigliare. Presto arrivarono i primi successi, le medaglie e i riconoscimenti internazionali. Le nostre bottiglie erano servite sui voli di prima classe dell’Alitalia e ai tavoli del Quirinale».

178 soci, 19 tipologie, 7 milioni di bottiglie

Da allora ad oggi i soci sono diventati 178 (su un totale di 270), 116 sono gli imbottigliatori e 7,3 milioni le bottiglie prodotte. Le tipologie ammesse, ben 19, nascono, manco a dirlo, dalla ricchissima frammentazione ampelografica (dalle autoctone uve Friulano, Ribolla, Picolit e Malvasia istriana alle internazionali Pinot grigio, il più diffuso col 29% della superficie totale, Pinot bianco, Sauvignon, Chardonnay, Riesling, Merlot, Cabernet Sauvignon e Franc): il credo prevalente, Collio bianco e Collio Rosso a parte, è quello di una produzione monovarietale. La spinta alla viticoltura ha ridisegnato il paesaggio, trasformandolo in una cartolina dove (quasi) ogni strada porta a una vigna: dei 7 mila ettari di estensione totale, 1300 sono rapiti dalle viti e spesso le terrazze scolpiscono il profilo delle colline, punteggiate di boschi di robinia, frutteti e pozze lagunari.

Costruzione di un’eccellenza

Anche il vino e il modo di farlo hanno attraversato numerosi cambiamenti in questi sei decenni. Da una coltura “hobbistica” e rudimentale si è passati alla razionalizzazione dei filari, con l’addio alla vecchia cappuccina e l’adozione del guyot.
«Le innovazioni tecnologiche degli anni 80 trasformarono le cantine e l’acciaio è diventato sovrano. Si affinò l’arte del freddo, per conservare ed esaltare il corredo aromatico dei vini, e le presse pneumatiche hanno sostituito i torchi», ha raccontato Giovanni Bignucolo, storico enologo dell’ente consortile. «La visione di un prodotto internazionale dettata dalla lungimiranza di Mario Schioppetto fece sempre più proseliti», ha rammentato David Buzzinelli, presidente del Consorzio. «Dall’inseguimento del corretto rapporto produttivo in pianta negli Anni 90, che portarono a uno stile fatto di esasperata concentrazione nel bicchiere, si è passati alla ricerca di equilibrio nella freschezza e nella salinità a partire dai primi 2000. Fino alla definizione di metodi e stilemi che devono fare i conti col cambiamento climatico».

Assaggi da Dolegna a Oslavia

Qualche esempio del risultato di questa parabola darwiniana che ha portato i vini del Collio sull’Olimpo dei bianchi italiani l’ha offerto la degustazione: 10 bianchi e 5 rossi (sì il Collio non è solo un feudo bianchista, anche se la produzione si spacca in un 89% contro 11%) di vecchie (fino alla 2013 per i bianchi e 2008 per i rossi) e nuove annate (dalla 2023 alla 2021) condotta dal sommelier Michele Paiano.
Assaggi che hanno confermato la complessità e la longevità di queste espressioni, la cui marca salina e minerale è un tratto tipico conferito dalla ponca, il complesso sedimentario composto da marne e arenarie stratificate di origine eocenica, depositate in un ambiente marino con numerosi reperti fossili.
Un viaggio da Est a Ovest. Da Dolegna, zona di grande escursione termica che si traduce in freschezza e aromaticità nei vini, alle aree centrali di Pradis, Zegla, Cormòns, con i loro microclimi e la capacità di dare espressioni complesse e strutturate, fino ad arrivare alla grande vocazione del comprensorio di Oslavia.
Una lectio magistralis con annesse due doverose conferme: la prima è che i bianchi del Collio pretendono attesa e ripagano i pazienti con la loro sorprendente evoluzione; la seconda è che i rossi, pur meno noti, sono sempre più capaci di stupire.

Denominatore comune

In 60 anni sono cambiate le bandiere sopra le teste, si sono spostati confini, mescolati idiomi e cognomi, ma il vino è sempre stato capace di mettere tutti d’accordo. E l’assioma è ancora più vero oggi che su impulso del Consorzio si vuol fare del vino, anche, un vessillo turistico tramite la creazione di un’associazione pilotata assieme a una rappresentanza dei Comuni e dell’enoteca regionale di Cormons (che nel frattempo è previsto cambi statuto) per dare impulso alla ricettività enogastronomica della regione.
«Una cosa che non è mutata dal 1964 a oggi, è la volontà di averlo, questo Consorzio. Dal gruppo di pochi produttori che l’hanno fondato il numero di soci è cresciuto fino a quasi duecento e con esso anche la diversità di vedute. Non sono mancati posizioni critiche, dibattiti anche accesi e confronti ma quando si è trattato di decidere se proseguire assieme, il voto è sempre stato unanime», ha sottolineato Buzzinelli.

Docg e Collio bianco: i dossier ancora aperti

Certo come tutti i meccanismi la “macchina” consortile è perfettibile e sul suo tavolo restano aperti dossier come quello che riguarda la definizione della Docg e l’identità del Collio bianco. Il primo, che potrebbe regalare nuovo slancio alla reputazione già alta del territorio, è un tema finito in un arrocco ideologico e sintattico che ci pare chieda “solo” l’onere di tradurre in disciplina la realtà produttiva della regione per quella che è, «ma per quello ci vorrà ancora qualche anno», confessa il presidente. Sul secondo, una tipologia che oggi concede completa libertà espressiva a chi lo produce, è invece in atto una diatriba ideologica con chi (le 7 aziende promotrici di un Collio bianco fatto solo con uve autoctone) ne promuove un blend neoclassico (e forse più identitario): Friulano, Ribolla e Malvasia istriana.
Ma nonostante tutto, chiosa Buzzinelli, «oggi si pensa sempre meno per particolarismi e si ragiona sempre di concerto per valorizzare il terroir. Che è la somma di culture, tradizioni e caratteri che rappresentano la “vita” del Collio».

Foto del servizio: © Consorzio di Tutela dei vini del Collio

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© Riproduzione riservata - 25/06/2024

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