Vini da investimento. Aspettiamo i saldi

Vini da investimento. Aspettiamo i saldi

Per la Francia non è un bel momento, ma pare che gli eno-plutocrati di Bordeaux non se la passino male. I più celebrati Châteaux sono da tempo nelle mani di miliardari o di compagnie assicurative, gestiti da manager altamente qualificati che pensano solo secondariamente alla soddisfazione del cliente, e preferiscono studiare le strade più sicure per massimizzare il prodotto.

Questa logica, dopo l’ultima campagna “en primeur”, si è manifestata nei suoi limiti estremi, che cerchiamo di comprendere con l’aiuto dell’economista americano Mike Veseth, scrittore di testi originali come Money, Taste & Wine e Wine Wars e autore della newsletter The Wine Economist. Dunque, già avevamo la sensazione che il mercato del vino non fosse più solo diviso tra mass market e fine wines, ma che bisognasse considerare la terza dimensione dei “vini da investimento“.

Male che vada, lo si può sempre bere?

Sono passati i tempi dell’avvocato Agnelli e della sua boutade “Investire nel vino. Male che vada, lo si può sempre bere!”, e non solo perché i prezzi sono ormai tali che bersi una bottiglia da 5mila euro suscita qualche scrupolo anche a Paperone (forse soprattutto a lui), ma anche perché, semplicemente, i blasonati Châteaux preferiscono conservare il prodotto, piuttosto che metterlo sul mercato. Assurdo? Nella logica tradizionale del vino, forse.

Un pericoloso mercato di vini immaturi

Ricordiamo che in Italia, fino a ieri, la scelta delle aziende vinicole è stata quella di svuotare il magazzino, per generare flusso di cassa, e perché, in fin dei conti, produrre e vendere era considerata la missione di un’impresa, senza sottigliezze. Non solo, questa logica e la spinta delle guide enologiche, in corsa nel giudicare e premiare l’ultima annata, o se possibile la prossima, hanno causato negli anni Duemila, un pericoloso mercato di vini immaturi, avidamente assaggiati da appassionati desiderosi di vivere l’ebbrezza di un 100 punti Parker o di un Tre bicchieri. Con conseguente delusione.

Anche l’Italia sta cambiando mentalità

Ora, però, anche nel nostro Paese si sta diffondendo una sensibilità verso il valore del tempo e si apprezza la gioia sottile di un vino bevuto negli anni giusti. Si è anche disposti a pagarlo un po’ di più, ragione per cui alcune aziende cominciano a conservare un contingente di bottiglie, per venderle qualche anno più tardi, al top dell’affinamento, con il doppio risultato di offrire un servizio al consumatore, che così non è costretto ad affinare il vino sotto il lavello di una cucina milanese, e di ottenere un margine di guadagno superiore sulla singola bottiglia. Luciano Sandrone, a Barolo, ha messo da parte una quota di bottiglie delle ultime annate per proporle in una “seconda edizione”, dopo un affinamento suppletivo in cantina.

Vini da investimento

E fin qui tutto sembra avere un senso di equilibrio tra esigenze del consumatore raffinato e opportunità di business per le aziende. Le osservazioni che Veseth riporta, analizzando l’ultimo report del Liv-ex, la piattaforma di trading e di ricerca dedicata al segmento dei fine wines, sui prezzi dell’ultima campagna en primeur di Bordeaux, hanno invece tutto un altro sapore, e ci gettano oltre il preoccupante confine della speculazione, ovvero nel mondo del vino da investimento. Che Veseth definisce “No sell”, da non vendere. Possibile?

Il rischio della bolla speculativa

I top manager degli Châteaux più quotati hanno fatto i conti, ponendosi il seguente quesito: speculo di più se vendo, e investo il margine di guadagno (che è molto alto, nel caso dei Premier Cru) oppure se conservo le bottiglie e le rivendo tra qualche anno a un prezzo superiore? Certo dipende anche dalle aspettative di crescita o decrescita dei prezzi di Bordeaux, ma oggi i tassi di interesse bancari sono così bassi, commenta Veseth, che anche solo la minima attesa di innalzamento dei prezzi dei Premier Cru induce i gestori del patrimonio bordolese a trattenere gran parte degli stock, cioè a non vendere.

Aspettiamo i saldi

Non solo, tale scelta si traduce anche in un rafforzamento del patrimonio aziendale. Si legge nella nota Liv-ex: “La priorità si sta spostando dalla vendita, per alimentare il flusso di cassa, al tentativo di massimizzare i prezzi (in particolare dei Grands Vins) e di conseguenza anche il valore delle proprietà”. Il ragionamento finanziario fila e i più esperti in materia potranno facilmente intravedere anche molte altre opportunità. Ma tutto ciò, oltre ad allontanarci dalla natura più edonistica del vino, ci ricorda tanti casi di bolle speculative. E allora, al buon bevitore, non resterà che acquistare Margaux o Lafite a prezzo di saldo.

 

Questo è l’editoriale di Civiltà del bere 4/2016. Per leggere tutto il numero acquista la tua copia (anche digitale!) sul nostro store oppure scrivi per info a store@civiltadelbere.com

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© Riproduzione riservata - 02/08/2016

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