Senza titolo. I tormentoni del vino italiano

Senza titolo. I tormentoni del vino italiano

Ora che sociologi e storici si degnano di interpretare anche le cose vinicole, sarebbe interessante leggere le loro analisi sui tormentoni del vino italiano. Gli anni Novanta furono quelli della rivoluzione giacobina, che potremmo definire con rigore etimologico anche “delle barricate”. Non c’erano bianchi e rossi che potessero ambire a una seria considerazione senza un passaggio, fosse pure una sveltina, in rovere francese. In avanscoperta l’anarchico Veronelli vedeva nei modelli d’Oltralpe i capolavori da imitare.

Il mito della Francia

E così nacquero i nostri miti, che guarda caso sono spesso definiti (e a voi, lettori esperti, il divertimento di capire a quali etichette ci riferiamo) “il Pauillac di Bolgheri”, “il Romanée-Conti di Sicilia”, “il Montrachet delle Langhe”, “il Pétrus del Lazio”, “lo Champagne di Trento”. Tutti vini mostruosamente buoni, ça va sans dire. E dietro alla vibrante e influente prosa di Veronelli, un’elegante signora francese si premurava, suscitando qualche sarcasmo, di venderle, queste barrique miracolose.

Gli anni della purezza

Non stupisce, quindi, che gli anni Duemila furono quelli del rigetto reazionario, d’ispirazione vagamente nazional-socialista, ovvero gli anni “della purezza”. Si cominciava anche a notare che non tutti nel mondo si lasciavano stregare dall’allure francofona. Anzi, per colpire al cuore l’ormai distratto consumatore, diventava necessario equipaggiarsi con armi più moderne ed efficaci, con un marketing da guerra, vitigni riconoscibili e una certa potenza d’urto: la California poteva insegnare qualcosa. Così, Chardonnay e Cabernet all’americana, Sauvignon alla neozelandese, Syrah all’australiana, che cominciavamo a definire “internazionali” più che francesi, sbaragliavano sui mercati del mondo.

Autoctono è bello

Irruppero sulla scena i vini varietali, e ai sacri convivi (gli odierni wine-tasting) stuoli di novizi sommelier salmodiavano un noioso ritornello agli astanti, attoniti produttori: “è in purezza?”, “solo Sangiovese?”, “Chardonnay cento per cento”? Nella retorica della purezza si è dunque facilmente inserito un aggettivo dal sapore nazionalista che, per conto suo, stava già intrigando alcuni bevitori stanchi dell’omologazione bordolese: gli anni Duemila sono quelli “dell’autoctono”, della riscoperta di vitigni rari, antichi, locali. Passerina, Pugnitello, Pecorello, Pecorino d’improvviso meritano più attenzione e rispetto del povero, prima osannato e poi deprecato, Merlot.

Gusto minimal. L’assoluto annoia

Non è forse un caso che, proprio sull’onda lunga della purezza autoctona, scoppia lo scandalo Brunello che, nel decennio precedente, per compiacere i palati internazionali era stato imbastardito con i geni francesi, mentre i Supertuscan, resi “super” proprio da questo nobile matrimonio di respiro europeo (Sangiovese con Cabernet e/o Merlot), cominciavano a dover rimpicciolire sulle schede tecniche i caratteri tipografici con cui erano scritti i vitigni. Meglio evitare imbarazzanti domande sulla purezza della razza. Ed eccoci al presente, agli anni Dieci del Duemila. Stanchi dell’assoluto, che inizialmente inebria ma inne annoia, disillusi di fronte al mito americano o francese, stiamo entrando del decennio minimalista o “del senza”.

Nuovo modello la Borgogna

Ispirati dal motto jobsiano less is more, oggi amiamo comunicare per sottrazione. Sulla tavola è tutto senza zucchero, senza glutine, senza grassi, senza uova. I vini sono prodotti senza diserbanti in vigna, fermentati senza solti, sboccati senza dosaggio… e ovviamente, anati senza barrique. E i rossi sono anche senza colore, se possibile, perché oggi si cerca l’eleganza anoressica, dopo decenni di vini ciccioni. Il paradigma dominante si è spostato da Bordeaux alla Borgogna.

I tormentoni del vino italiano. Basta imitare!

Si torna al punto di partenza: un grande Barolo evoca Chambertin. E si apre il capitolo del prossimo decennio, quando saremo tanto consapevoli del nostro valore, dell’unicità delle nostre denominazioni, delle nostre tenute agricole, da abbandonare definitivamente la corsa all’imitazione. Senza curarci troppo dei tormentoni, della barrique, della purezza, dell’autoctono, dei solfiti. Senza paura. Gli anni Venti del Duemila potrebbero essere senza complessi o “dell’autenticità”.

 

Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 05/2016. Per continuare a leggere acquista il numero nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com.
Buona lettura!

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© Riproduzione riservata - 14/10/2016

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