Nomina nuda tenemus. Ma dell’uva non resti solo il nome
Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. In soldoni: non ci resta che il nome, della rosa. Con questa citazione in latino, che è una corruzione di un originale di Bernardo Cluniacense, monaco del XII secolo, Umberto Eco chiudeva il suo primo e più celebre romanzo “Il nome della rosa” e portava all’attenzione di milioni di lettori la diatriba filosofica che ha per secoli contrapposto il nominalismo all’universalismo. Ovvero, la discussione tra le parole e ciò che rappresentano. Nomina nuda tenemus, non ci restano che le parole. Attorno al tema, poi, nel romanzo ci crepano diversi personaggi. Ma tutto ciò ha senso: anche gli italiani rischiano in effetti di ammazzarsi per un nome, e il microcosmo del vino non è da meno.
Glossario del vino versus marketing?
Mi è capitato, recentemente, di riportare sui canali “social” la notizia, raccolta da un brillante produttore siciliano, che alcuni imprenditori vorrebbero cambiare nome al Catarratto, il vitigno più diffuso sull’isola, poiché risulterebbe poco attraente in termini di marketing, e difficile da pronunciare. Si è immediatamente sollevata la protesta di un’energica, eccellente vignaiola, che domandava: perché cambiare nome a un vitigno così tradizionale? Forse altri, come il Gewürztraminer, non portano il fardello di una parola impronunciabile? Eppure hanno successo. Entrambe le posizioni sono condivisibili, ma non lo scrivo per democristianesimo. Ritengo, piuttosto, che prima di accapigliarsi sui nomi, varrebbe la pena di discutere sulla sostanza. In Italia siamo già stati traumatizzati da improvvisi cambiamenti: quando il Tocai è stato restituito agli ungheresi, a noi è rimasto il Friulano; per il Prosecco è stata creata una Doc, e di conseguenza abbiamo dovuto modificare il nome (e pure il sesso) al vitigno, che d’improvviso ha preso il nuovo e sconosciuto nome di Glera. Tra l’altro, il Prosecco, con un colpo di genio, con quella Doc si è svincolato dalla sudditanza (perniciosa) del vitigno e si è ancorato a una denominazione, per quanto discussa, per quanto ampia, per quanto se ne voglia dire.
Il rischio dell’anonimato organolettico
La verità è che, quando ci troviamo con colleghi stranieri competenti, animati dalla passione (o dall’obbligo) del “blind tasting”, aleggia sempre un fantasma nella sala, ovvero l’incubo di trovarsi di fronte a tre o quattro vini bianchi italiani “neutri” (aggettivo di per sé non degradante, che significa, tecnicamente, non aromatici) e di doverli identificare. Sono eleganti, a volte. Minerali, certamente. Ma troppo spesso rasentano l’anonimato organolettico: Garganega, Trebbiano di Lugana aka Verdicchio, Passerina, Fiano, Greco, Falanghina… quanti esperti degustatori sanno davvero riconoscerli? Lo so, sentiamo già l’indignazione di qualche lettore, che li considera grandi vitigni. E a ragione, perché lo sono! Sanno mostrare nerbo, carattere, talvolta uno straordinario potenziale evolutivo. Ma sovente sono semplicemente neutri. Né aromatici, né tipici, né territoriali. Sono antichi, ma danno talvolta l’impressione d’essere ancora immaturi, alla ricerca di un’identità.
La parafrasi dell’uva
Selezioni clonali, studi sui portainnesti, zonazioni, ricerche agronomiche, microbiologiche… sono numerose le strade che conducono alla massima espressione di un vitigno e di un territorio. Così è accaduto con molte uve che non sono diventate “nobili” per caso, e anche con i nostri Nebbiolo e Sangiovese si è fatto sinora un ottimo lavoro. I vitigni autoctoni italiani sono un vero patrimonio, che attende però di essere recuperato nella sostanza. Sinora forse qualcuno si è innamorato più dei loro nomi che del profumo e del sapore: Pugnitello, Foglia tonda, Passerina, Nerello… Invece, alcuni di essi hanno, di fatto, un potenziale ancora solo parzialmente esplorato. Ci troviamo quindi a parafrasare Eco che parafrasava Bernardo: stat uva pristina nomine, nomina nuda tenemus. Evitiamo che dell’uva resti solo il nome.
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© Riproduzione riservata - 08/04/2016