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Le origini e l’evoluzione dell’enogiornalismo

13 Ottobre 2025 Cesare Pillon
Le origini e l’evoluzione dell’enogiornalismo
© Pexels - dzeninalukac

Ecco l’ultimo articolo scritto dal nostro collaboratore Cesare Pillon, a cui saremo sempre grati per le impagabili lezioni di scrittura e umanità. In questo servizio, uscito sul n.3/2025, parte dalla sua esperienza personale per spiegare la genesi e gli sviluppi del racconto enologico sui media: dai giornali al web, passando per la televisione. Il caso Sassicaia e la lotta alla barrique, il modello Parker e le derive no alcol. Senza dimenticare una diffusa “banalizzazione semplificatoria”

Quando qualcuno mi chiede: “Com’era il giornalismo del vino quando hai cominciato tu, mezzo secolo fa? Era molto diverso da quello d’oggi?”, mi vien da ridere: il giornalismo enologico non era diverso da quello d’oggi, non esisteva proprio. I giornali dedicavano spazio a questo tema con estrema parsimonia. In compenso quando compariva un articolo sul vino non era opera di un giornalista ma di scrittori del calibro di Mario Soldati, di grandi firme come Paolo Monelli, di intellettuali autentici come Adriano Ravegnani.

Agli albori con Gino Veronelli e la tivù

In questo panorama vi era una sola eccezione, quella di Gino Veronelli, che nella sua rubrica sul settimanale Panorama inaugurò la fase pionieristica del giornalismo enologico. Che nacque sotto la spinta di un fenomeno: cominciava l’era del vino percepito come fonte di piacere, cemento della convivialità, argomento di cultura. Ad occuparsene non erano più soltanto i giornali e la radio: nel 1954 la Rai aveva avviato regolari trasmissioni televisive in bianco e nero. Trasmissioni che avrebbero cambiato il Paese, insegnando a una popolazione ricca di analfabeti a parlare la sua lingua nazionale, a leggerla e a scriverla. Eppure di televisori ce n’erano pochi, nelle case, erano troppo costosi e la gente comune non poteva permetterseli. Per vedere i programmi si riuniva in gruppo nei bar e nelle poche case che avevano installato l’apparecchio.

Il ruolo del Sassicaia nel Rinascimento

Il periodo di transizione, prima che i televisori si diffondessero in ogni appartamento d’Italia, fu comunque sufficientemente lungo per consentire al giornalismo cartaceo di attrezzarsi per affrontare la coesistenza, che fu raggiunta grazie a un tacito compromesso: i telegiornali avrebbero trasmesso le notizie, i giornali cartacei il loro approfondimento. Questo impegno parallelo fu messo felicemente alla prova quando il vino italiano, grazie al successo internazionale del Sassicaia, si trovò aperte le strade del mondo e diede il via a quello ch’è stato definito il suo Rinascimento. Per un momento l’attenzione si concentrò su due temi importanti, i vitigni bordolesi e la barrique. L’utilizzazione delle varietà d’uva francesi del Sassicaia venne contestata con garbo, valorizzando i vitigni autoctoni. Lo fece Mario Soldati con un’inchiesta televisiva intitolata “Viaggio nella Valle del Po alla ricerca dei cibi genuini”, dove insieme ai cibi c’era sempre qualche vino autoctono poco conosciuto.

Come viene raccontato oggi il vino sui media

Nei confronti della barrique, invece, si scatenò una violenta reazione allergica che ne contestava perno il sapore perché troppo segnato dal legno. Quelli maturati in barrique erano “vini da falegname” o “di Pinocchio”. L’attenzione, talvolta addirittura spasmodica, per profumi e sapori non era casuale. La cultura enologica era stata diffusa in Italia dall’Ais, Associazione italiana sommelier, che era arrivata per prima a organizzare corsi sul vino essendo nata nel 1965. Però la sua egemonia culturale ha fatto sì che le pagine dei giornali, i canali Tv e i blog di cui pullula il web trattino il tema del vino in ogni ora del giorno e della notte, ma il vino che ne emerge è a una sola dimensione, quella degustativa, in bilico tra due estremi: il delirante lirismo di descrizioni dense di neologismi di ardua decifrazione e la banalizzazione semplificatoria del giudizio in voto centesimale.

Dal modello Parker alle mode salutiste e al no alcol

Polo d’orientamento che Parker ha sostituito con la sua preferenza per vini ricchi di alcol, di robusta struttura e di grande longevità. Questa preferenza è rimasta invariata fino a ieri; ad essa si sono adeguate le mode, perfino quella dei rosé dal colore tenue. Cosicché, senza preavvisi, il vino italiano ha scoperto che una parte consistente dei consumatori vuole tutto il contrario di ciò che è attualmente: vini leggeri, soprattutto con poco e se possibile niente alcol. È un interrogativo di portata storica, perciò, quello di fronte a cui ci troviamo oggi: l’attuale evoluzione del gusto, che ha unicamente motivazioni sanitarie ma un’enorme presa sulle aspettative dei consumatori, riuscirà a cancellare una millenaria tradizione come quella del vino, che ha radici profonde nella storia, nel costume e nella cultura?

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