WOW! Il ritorno della tipicità

WOW! Il ritorno della tipicità

Il tema dell’ultimo numero di Civiltà del bere è il “mix”, la miscela intesa come l’incrocio che incide sulla qualità del bere e del mangiare. La miscelazione, il missaggio (contaminazione con la lingua inglese) porta resistenza, equilibrio in tutti i campi.

La purezza è un mito e l’identità, pur essendo spesso confusa con essa, è un’altra cosa: è riconoscibilità, è la differenza che distingue e che nasce spesso dalla contaminazione. Il grande vino di Bordeaux è identitario ma è un guazzabuglio di vitigni, miscelati alla ricerca dell’equilibrio; la cucina siciliana è identitaria e ha subito l’influenza di tutti i dominatori dell’isola.
Lo stile e l’identità del vino, come scritto anche nell’editoriale dello scorso numero, possono essere l’elemento chiave nella difesa e nella crescita dell’enologia italiana, ma è auspicabile aprire un dibattito sul tema, che finirebbe con l’essere molto stimolante.

Autoctono è davvero sinonimo di identitario?

Ci sono sostenitori del vitigno autoctono, “in purezza”, convinti che possa essere la soluzione, perché unico e irripetibile. L’autoctono talvolta è raro e suona italiano, certamente, ma ripetibile in quanto “vitigno”, non difendibile (il Sangiovese può essere legittimamente piantato anche in India, come infatti accade). E per questo la strada ormai seguita da tutti, anche in Napa Valley o in Argentina, è quella dell’origine. Più facilmente difendibile. Per questo in Italia abbiamo dovuto abbandonare il nome Tocai (che spetta alla denominazione ungherese Tokaji) e per lo stesso motivo abbiamo tutelato il Prosecco ancorandolo a un nome geografico, anche se rocambolescamente.

Il ruolo della tipicità in WOW!

Noi nel nostro piccolo abbiamo creato una competizione enologica per stimolare la riflessione sul tema della tipicità, che a nostro avviso è il pilastro dell’identità enogastronomica. L’anno scorso abbiamo lanciato la prima edizione di WOW! The Italian Wine Competition, dove una giuria di esperti assaggiatori (che quest’anno passano da 15 a 25 considerato l’enorme successo del 2018), presieduta da chi scrive, si cimenta nel valutare i vini iscritti sia per le qualità organolettiche (in centesimi), come siamo soliti fare, sia per la tipicità del prodotto. Nessun vino poteva vincere medaglie senza aver raggiunto anche una soglia minima di riconoscibilità.

Un concetto complesso e vago

Siamo consapevoli della complessità del concetto, perché non esiste una tipicità cristallizzata nei secoli né tantomeno decisa per decreto. Basta leggere i disciplinari di produzione che tutelano le Dop italiane,per rendersi conto che il concetto è sempre vago, per quanto contemplato. Vediamo ad esempio che cosa prescrive la legge sul vino Doc Aglianico del Vulture. “All’atto dell’immissione al consumo, deve rispondere alle seguenti caratteristiche: colore rosso rubino; odore tipico, gradevole ed intenso; sapore dal secco all’abboccato, giustamente tannico e sapido”.

L’esempio dell’Aglianico del Vulture…

Come descrizione organolettica lascia ampi margini di discrezionalità. Odore “tipico, gradevole” non significa molto. E il fatto che possa essere da secco ad abboccato non aiuta la definizione dell’identità del vino. Sono due stili completamente diversi nella stessa Doc, e al consumatore, senza specifiche in etichetta, resterà la sorpresa quando stapperà la bottiglia. E sappiamo già quanto sia difficile far ricordare il nome di una Doc, non dargli un volto preciso sarà un ulteriore ostacolo.

….e del Valpolicella Doc

È solo uno delle centinaia di esempi tra i vini “tipici” italiani.
D’accordo, riconosciuta la necessità di definire il profilo organolettico di un vino, resta la grande complicazione di decidere quale debba essere il suo ritratto più realistico. Prendiamo un altro caso, il vino Doc Valpolicella: è secco, leggero, speziato, molto fresco oppure morbido, leggermente abboccato, molto fruttato? Troveremo chi lo interpreta in un modo chi nell’altro, ma quanto utile sarebbe ai produttori stessi che nel mondo avesse un’identità, che in quanto tale lo differenziasse agli occhi dei consumatori del mondo – dai Bordeaux generici, dai Merlot di tutto il mondo, dai più ordinari Malbec argentini. Vini che senz’anima diventano perfetti succedanei che lottano unicamente sul prezzo.

Individuare i vini più autentici ed espressivi di un territorio

I nostri giudici dovranno riflettere sull’importanza del loro lavoro e del messaggio che lasceranno ai lettori. Le loro indicazioni saranno preziose, giacché sono abituati ad assaggiare centinaia di vini di un singolo territorio. L’obiettivo sarà individuare i più autentici. Non sarà “legge”, da scrivere nei disciplinari, ma potrà essere uno stimolo di riflessione anche per i produttori. E per il pubblico sarà l’occasione per acquistare vini particolarmente rappresentativi dei territori del vino italiano.

Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 4/2019 . Se sei un abbonato digitale, puoi leggere e scaricare la rivista effettuando il login. Altrimenti puoi abbonarti o acquistare la rivista su store.civiltadelbere.com (l’ultimo numero è anche in edicola). Per info: store@civiltadelbere.com

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© Riproduzione riservata - 09/08/2019

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