Senza confini Senza confini Aldo Fiordelli

Pinot noir: un confronto mondiale dall’Oltrepò alla Nuova Zelanda

Pinot noir: un confronto mondiale dall’Oltrepò alla Nuova Zelanda

Le degustazioni alla cieca sono come il gioco d’azzardo. Più si sbaglia e più si degusterebbe, convincendosi di non commettere gli stessi errori due volte, di aver capito come fare, di poter recuperare. Poi succede davvero di recuperare, di non sbagliare, di riconoscere un vino e allora scatta il vizio delle “bendate”. Domenica scorsa a Milano, in occasione dei Wine Days, Civiltà del bere ha organizzato una degustazione (appunto alla cieca) di Pinot noir dal mondo. Uno degli appuntamenti della kermesse al Museo dei Navigli andato in pochi giorni sold out.

Una varietà moderna e amata da tutti

Questo vitigno è in genere amato da tutti, difficilmente criticato come succede per altre uve nobili come Cabernet Sauvignon e, soprattutto, Merlot. Un’uva sensibile a ogni sfumatura che ben si presta all’enologia post moderna che vuol produrre vini precisi e puliti, purché non privi di emozione. E il vitigno della Borgogna difficilmente nega sfumature personali anche quando è imbrigliato in una cantina iper razionale. Una varietà che sui profumi si gioca molte delle proprie carte non avendo una struttura per sua natura particolarmente robusta, con tannini volubili alla vinificazione più o meno estrattiva.

Le difficoltà del Pinot noir

E tuttavia è al palato che rivela la sua vera natura di ancella del terroir. Mai o quasi mai priva di buona acidità, si tratta di un’uva dalla buccia sottile e quindi sensibile al marciume e alle malattie, con poco colore a supportare la finezza tannica. Il suo è un volto pulito e già delineato al punto che il minimo trucco si nota subito. A cominciare dal legno. Eppure è necessario, piccolo e nuovo, per creare i presupposti affinché la bellezza del Pinot nero duri nel tempo e non resti solo l’effimera contemplazione di un farfalla.

Il giro del globo in 5 Pinot noir. Confronto mondiale

Tra Vecchio e Nuovo Mondo i vini presenti alla degustazione erano scelti dalle zone più classiche: Nuova Zelanda, Oregon, Borgogna, Oltrepò pavese e Alsazia. Una scelta quella della redazione di Civiltà del bere guidata dalla volontà di far emergere le reali differenze di terroir tra i vari paesi. L’alcol ad esempio, era per tutti i vini 13,5%, con la sola eccezione dei 12,5% dell’Alsazia.

Difficoltà alla cieca: sono omogenei per colore e annate

Le annate erano in rapida successione: due 2015, un 2014 e due 2013 in modo da minimizzare le differenze di colore. Così come la fascia di prezzo era volutamente equivalente per non mettere a confronto pesi massimi e pesi mosca sul ring dei Wine Days. La selezione di Civiltà del bere nascondeva cioè dettagli che potevano sfuggire a un osservatore superficiale. Non c’erano quelle macro differenze che con un pizzico di altezzosità si aspetta l’amante del Pinot nero francese per il quale tutto ciò che non è borgognone non è interessante, è marmellatoso, alcolico e con l’aria naif di chi imiti un originale.

Nuova Zelanda e Alsazia aprono le danze

La degustazione è cominciata con un Pinot nero dai sentori di trucioli di matita e di rosa, più speziato nonostante una precisa definizione di frutto. Leggero e rinfrescante in bocca, con un tannino quasi setoso ma alla fine di “gallica” secchezza, il primo vino è risultato un campione di precisione, più moderno che post moderno. Le suggestioni del pubblico sono state per Nuova Zelanda e Francia. Si trattava del Cloudy Bay prodotto a Marlborough in un’annata calda come la 2015 che ha sottolineato il carattere solare di questo vino prodotto col 13% di raspi e il 35% di barrique nuove. L’altro 2015, di Gilbert Ruhlmann in Alsazia, vinoso e croccante ma con una certa magrezza, è stato collocato dalla maggior parte degli ospiti in Oltrepò Pavese, forse a causa del profilo floreale del vino. Era senza dubbio il più semplice della batteria, con qualche ambizione in meno e una minore complessità rispetto ai colleghi, ma pur sempre di bella tensione.

L’Oregon e la Borgogna creano scompiglio

Senza sapere l’esito sui primi due bicchieri l’Oregon ha sparigliato le carte, come quasi sempre fanno i bei cloni Digione dello stato americano. Resonance Vineyard di Louis Jadot e importato da Gaja distribuzione, a parte una nota di Kir al naso, esprimeva sfumature (buccia di kiwi, grafite, violetta) che portavano insieme a un tannino croccante e alla fine anche graffiante verso un vino classico. La rotondità del Volnay del Domaine Marquis d’Angerville 1er cru e il suo finale di ciliegia matura ha ancora depistato. La complessità ha però riportato i palati più attenti sulla Borgogna. Un naso di rabarbaro e arancia amara su un tannino fermo e masticabile, con due indizi ulteriori verso il vecchio mondo: un velo di volatile e un accenno di fungo secco a denotare forse qualche legno non perfetto.

Last but not least… Italia!

L’ultimo vino, da molti scambiato per il Borgogna, era invece il Conte Vistarino Vigna Pernice, Provincia di Pavia Igt 2013. A influenzare il pubblico forse la potenza di questo vino che, complice anche l’annata, esprimeva un’estrazione tannica spessa e vellutata da suggerire capacità d’invecchiamento difficilmente reperibile nel Nuovo Mondo. Sentori varietali del Pinot nero accompagnati da un bouquet di fiori con la profondità del chicco di caffè e del cacao hanno accentuato questo profilo “borgognone”. In questo caso però la mora di rovo più scura e dolce doveva riportare in Italia. A quella solarità che il Pinot nero, così delicato, riesce ad esprimere senza perdere la sua nordica eleganza. Un vitigno così post moderno da farsi beffe dei preconcetti, negativi o positivi che siano.

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© Riproduzione riservata - 10/11/2017

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