Tra i connazionali impegnati nella produzione delle Italian Grape Ale c’è chi osa, cercando contaminazioni con le fermentazioni dell’uva. Un approccio più rischioso che regala birre fortemente identitarie. Tutto quello che c’è da sapere e una selezione di tre etichette da provare
Abbiamo già parlato delle Italian Grape Ale (Iga), lo “stile non stile” che sta distinguendo l’Italia brassicola, anche oltre i confini nazionali. Abbiamo scritto che i primi pionieri di questa tipologia, ossia Teo Musso di Baladin, Nicola Perra di Barley e Riccardo Franzosi di Montegioco, utilizzavano l’uva quasi come una spezia, un aromatizzante. Aggiunta in diverse forme (mosto, mosto cotto, frutto), ma sempre durante la bollitura del mosto, per evitare “deviazioni” fermentative.
Questioni tecniche da considerare
Durante la bollitura, infatti, i lieviti presenti sulla buccia dell’uva vengono disattivati e non interferiscono, se non in minima parte, con quelli selezionati che normalmente vengono utilizzati per la fermentazione della birra. In questo modo i birrai possono gestire meglio la fermentazione e prevedere con buona approssimazione il risultato finale. L’aggiunta di una materia prima aliena come l’uva porta inevitabilmente qualche piccola sorpresa, ma gestendo la fermentazione in modo classico (con lieviti selezionati) tutto rimane più o meno all’interno del recinto del conosciuto e del prevedibile
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