Presente sul territorio fin dal Settecento, il Sangiovese qui oggi si esprime per lo più in purezza e con eleganza. Le esibizioni muscolari sono un ricordo del passato. Da Imola a Rimini un percorso attraverso le 16 sottozone della denominazione.
L’articolo fa parte della Monografia Sangiovese (Civiltà del bere 3/2023)
Icona potente di una terra dai confini sfuggenti e di un popolo dall’identità ben più definita, il Sangiovese è il vino che meglio di tutti incarna la Romagna e lo spirito dei suoi abitanti. Il vitigno, di origine dubbia (meridionale o tosco-romagnola), fece la sua comparsa qui sull’Appennino tra il XVI e il XVII secolo. Vari documenti attestano una presenza di Sangiovese sempre più capillare sulle colline romagnole già tra Settecento e Ottocento. Ma è nel corso del secolo scorso che l’uva ha legato il proprio destino a questa terra in modo indissolubile.
Al centro della ricostruzione post-fillosserica e dei Piani Verdi governativi degli anni ’60 in virtù della sua buona produttività, il Sangiovese di Romagna è stato il primo vino regionale a essere riconosciuto Doc nel 1967 e si è confermato vitigno di elezione del territorio anche nei Piani di ristrutturazione dei vigneti partiti nel 2000. È negli ultimi trent’anni, tuttavia, che grazie a un profondo rinnovamento del mondo del vino romagnolo, segnato da più moderne tecniche di coltivazione della vite e di vinificazione e dall’affermazione di nuove generazioni di produttori dotati di una visione più consapevole e imprenditoriale del proprio lavoro, che il Sangiovese di Romagna – dal 2011 Romagna Sangiovese Doc a seguito della revisione dei disciplinari – ha saputo raggiungere livelli elevati di qualità nei diversi areali di riferimento.
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