Quali uve salvare (in caso di catastrofe)

Quali uve salvare (in caso di catastrofe)

Se un terribile flagello globale dovesse distruggere tutti i vitigni conosciuti, e tu avessi la possibilità di salvarne solo due, una a bacca bianca e una nera per il bene dell’umanità, quali sceglieresti di salvare?

Alla domanda rispondono José Vouillamoz, genetista di fama mondiale; Attilio Scienza, studioso di viticoltura ed enologia e docente alla Statale di Milano; Riccardo Cotarella, presidente degli enologi italiani e docente all’Università della Tuscia. Il quesito è stato proposto anche ai candidati Masters of wine (Esame di teoria, paper 5, 2018).

José Vouillamoz

Se salvi solo due vitigni, puoi propagarli in tutto il mondo o incrociarli e con i loro discendenti creare nuovi vitigni. In entrambi i casi, la “vinodiversità” verrebbe drasticamente ridotta, specialmente se le varietà scelte fossero geneticamente simili.

Una selvatica di salverà

Al fine di ricreare la fantastica varietà che osserviamo oggi nel mondo del vino, con circa 1.500 uve da vino attualmente coltivate ad uso commerciale, campionerei e propagherei due viti di Vitis Sylvestris L., la vite selvatica. Questa specie botanica è dioica, il che significa che tutti i fiori sulla stessa vite sono maschili (solo staminati) o femminili (solo pistillati), mentre le uve coltivate (Vitis vinifera L.) sono ermafrodite, con fiori che hanno stami e pistillo.

Viaggio lungo il Tigri

Tutte le moderne uve da vino Vitis vinifera sono discendenti di popolazioni naturali di Vitis sylvestris. Quindi, viaggerei nell’Anatolia sud-orientale, il centro più probabile di addomesticamento dell’uva, secondo le mie ricerche con il prof. Patrick McGovern. Quando ho visitato questa zona nel 2003 con Patrick, abbiamo trovato grandi popolazioni di Vitis sylvestris lungo il fiume Tigri.
La maggior parte delle viti selvatiche erano dioiche, ma abbiamo trovato il 2-3% di piante ermafrodite. Questo ci ha portato ad elaborare l'”ipotesi ermafrodita”: se propagassi una pianta maschile, la vite non produrrebbe mai bacche e la abbandoneresti. Se propagassi una pianta femminile, la vite produrrebbe bacche solo se una pianta maschio fosse nelle immediate vicinanze per l’impollinazione, altrimenti la pianta sembrerebbe sterile e la abbandoneresti.

L’ipotesi ermafrodita

Se propagassi una pianta ermafrodita, la raccolta dell’uva sarebbe assicurata ogni anno (le bacche sono di solito prodotte da sé, il che significa che il polline fertilizza il pistillo del suo stesso fiore!) e potresti preservare questa particolare vite. È quindi molto probabile che l’addomesticamento dell’uva sia stato reso possibile grazie a circa il 2-3% delle viti selvatiche ermafrodite che di solito si osservano nelle popolazioni naturali: questa è l’”ipotesi ermafrodita”.
Quindi, campionerei due viti selvatiche ermafrodite, le propagherei e fertilizzerei l’una con l’altra. Farei lo stesso con i loro discendenti (l’incesto non è un problema per l’uva…); li pianterei in vari terroir, li attraverserei ancora e ancora per centinaia e migliaia di generazioni, e alla fine della strada, otterrei una biodiversità che si spera sia simile a quella che abbiamo oggi.

Dalla nera alla bianca

Queste due viti sarebbero inizialmente a bacca nera; le versioni a bacca bianca e a bacca rosa però arriverebbero inevitabilmente col tempo, grazie al meccanismo naturale della mutazione del colore. Avrei bisogno di vivere circa 10 mila anni perché ciò accada, che è probabilmente il tempo trascorso dal primo addomesticamento. E vorrei preservare questa “vinodiversità” appena creata. Ogni vitigno ha il diritto di esistere.

Attilio Scienza

Una domanda simile, riferita ad un libro, viene spesso rivolta ai personaggi dell’arte o della cultura nel corso di un’intervista. La scelta si orienta spesso verso un classico, qualcuno indica un saggio, nessuno un fumetto. Riguardo al vitigno da salvare si possono analogamente esprimere preferenze molto diverse. Scegliere il vitigno con il quale si produce il vino del cuore o quello del nostro luogo d’origine e per il quale proviamo quasi un rapporto di affetto, ci si potrebbe spingere a salvare qualche vitigno autoctono, una reliquia, o quello che racconta con il suo pedigree una lunga e nobile storia.

Salvo anch’io la selvatica

Se fossi costretto, la mia scelta cadrebbe su una vite selvatica, abitante negletta dei nostri boschi, spesso minacciata dalla deforestazione. Vi chiederete con legittima curiosità per quale motivo? Per ripartire da zero, per rifare il lungo cammino che l’uomo ha fatto con la vite selvatica per addomesticarla, per rivivere assieme a lei quella straordinaria esperienza di vita che ha portato alle migliaia di vitigni che oggi coltiviamo in ogni parte del mondo.

Per un’archeologia della mente

Parafrasiamo un’affermazione di Louis Levadoux (1956): il segreto delle origini della nostra viticoltura è nelle viti selvatiche, con le quali è forse possibile ricostruire i paesaggi mentali dei nostri avi remoti, in una sorta di “archeologia della mente“. Le civiltà si sviluppano, secondo l’antropologo  Leo Frobenius (1873- 1938) per stadi successivi di crescita, maturità e decadenza, dapprima in forma “intuitiva” come nel bambino, poi “ideale” come nel giovane, infine “pratica” come nell’adulto. Il divenire storico è guidato dalle forze irrazionali che muovono dal profondo dell’umanità provocando “commozione”.
Pensare, operare nel segno della vite, significa tornare all’origini della sua domesticazione: un approccio antropologico al modo di pensare del viticoltore delle origini, che sintetizza l’atteggiamento dei coltivatori primitivi nei confronti delle piante oggetto del loro interesse.

Un rapporto personale

La domesticazione della vite inizia con un rapporto personale con le piante selvatiche, solo con alcune di esse, con quelle che, in virtù delle caratteristiche dei loro fiori, riuscivano a produrre con regolarità. Questa sorta di viticoltura, che non ha il significato che oggi viene comunemente dato a questa parola, si limitava a favorire lo sviluppo della vite nei confronti della concorrenza della pianta tutrice, perché la vite, non si deve dimenticare, è una liana che, per vivere, non solo deve farsi sostenere da una pianta arborea, ma soprattutto deve cercare di portare le sue foglie sopra la chioma.

Scelgo il fumetto

Solo più tardi l’uomo crea i vigneti ex situ, ma lo farà riproducendo il modello di associazione naturale vite-albero che per molto tempo aveva osservato e valorizzato, con la sua azione di proto-viticoltore, nei boschi dove le piante non venivano mai rinnovate e quando una pianta, spesso ultracentenaria, subiva le ingiurie del tempo, si svuotava all’interno e riduceva il suo vigore, veniva rimpiazzata con una propaggine ottenuta da una pianta vicina. Il segreto della loro longevità era consegnato alle modalità della potatura. Il ritorno alla vite primigenia, ai Lambruschi, con gli obiettivi e gli strumenti della contemporaneità, è come la scelta di un fumetto, per il libro da salvare.

Riccardo Cotarella

Nella mia ormai lunga carriera ho avuto la fortuna di conoscere moltissime varietà autoctone ed internazionali, e di tutte ho potuto constatare la diversa capacità di esprimersi nei differenti territori. Dovendo sceglierne solo due, mi sento di dire Sangiovese e Pinot bianco.

Sangiovese, l’italico

Il Sangiovese perché rappresenta l’italianità. E non solo perché (in purezza o in prevalenza) rappresenta la materia prima per la produzione di 16 Docg, 15 Doc e un’infinità di Igt. Ma anche e soprattutto perché riesce a esprimersi dando riconoscibilità e caratterizzazione ad ogni territorio dove si coltiva. E poi per le sue caratteristiche tecniche; in particolare per la sua spina dorsale acida che gli consente di evolversi per anni e anni, pur mantenendo la sua tipica freschezza e nobiltà. È un simbolo e una bandiera del patrimonio vitivinicolo italiano. 

Il Pinot bianco, sorprendente

Scelgo poi il Pinot bianco, in quanto è un vitigno a bacca bianca che – insieme ad altri ma più degli altri – si è evoluto in modo altamente migliorativo. I Pinot bianco di una volta si distinguevano in effetti per le loro caratteristiche “leggere” e come tali difficilmente riconducibili alla varietà e tanto meno ai territori. Se c’è una conseguenza positiva (tra tante preoccupanti) del cambiamento climatico, è che ciò ha permesso al Pinot bianco di arricchirsi in pianta. E non solo in termini di maturazione tecnica e accumulo di zuccheri, ma più che mai in sostanza e “personalità”; così che ora è in grado di produrre vini eccellenti con caratteristici e allettanti profumi di pesca bianca, dolci fragranze di mela e le sue tipiche note minerali e agrumeti. Non a caso oggi il Pinot bianco trova diffusione in molte regioni italiane, dal Nord al Centro al Sud, acquisendo e restituendo, da purosangue qual è, le influenze ambientali di ogni territorio.

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© Riproduzione riservata - 19/06/2020

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