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Per fare un grande vino serve anche la spiritualità

Per fare un grande vino serve anche la spiritualità

Nella rubrica Luoghi (non) comuni tratta da Cdb n.1/2022, Cesare Pillon ci spiega che per produrre un vino eccezionale sono necessarie passione, esperienza e competenza. Ma anche la componente di spiritualità non va sottovalutata. Ecco le sue riflessioni.

Dei vini prodotti dalla Fraternità di San Masseo mi ha colpito l’Assisi Doc ricavato da uve di Grechetto vinificate in acciaio: giovane e fragrante come da copione, ha i profumi fruttati e floreali che ci si aspetta, ma con inattese tonalità agrumate, sentori minerali e una consistenza in bocca che gli conferisce a sorpresa una personalità accentuata, non comune per un vino d’annata, che la lunga persistenza del sapore nel palato sottolinea.

La comunità di Bose

Quando ho conosciuto chi lo fa, quel vino, ho capito che il suo fascino non risiede soltanto nelle qualità organolettiche. Il suo autore si chiama Michele Badino ed è un monaco della Comunità monastica che Enzo Bianchi ha fondato a Bose, frazione di Magnano (Biella), l’8 dicembre 1965, il giorno in cui si concludeva il Concilio Vaticano II. È una Comunità di monaci laici, di entrambi i sessi, di confessioni cristiane diverse; sono uomini e donne, cattolici, ortodossi, protestanti, che vivono in fraternità una vita cenobitica di preghiera e lavoro. La regola esige che si sostentino con il loro lavoro.

La storia di Michele Badino

Con un sorriso irradiante e una barba cespugliosa che chi lo conosce bene definisce più da rivoluzionario che da mistico, Michele Badino fornisce un’immagine esemplare di questa tipologia di monaco. È architetto e nel giugno del 1997 la Comunità gli aveva affidato la responsabilità dei lavori edili e della salvaguardia del paesaggio: è in quella veste che nel 2009 gli fu dato il compito di restaurare ad Assisi il Monastero di San Masseo che, acquisito da Bose, nel 2011 avrebbe ospitato una delle sue Fraternità. Michele ha voluto farne parte: giunto a San Masseo, non si era limitato a restaurare il monastero benedettino edificato nel 1059, ma aveva anche avviato il recupero del vigneto che lo circonda, trascurato da anni e inselvatichito.

Da architetto a vignaiolo

Il lavoro svolto su quei 2 ettari impiantati alla fine degli anni ’60 con viti di Grechetto, varietà a bacca bianca tipica dell’Umbria, lo aveva talmente appassionato da convincerlo a restare lì non più come architetto ma come vignaiolo. «È dall’infanzia che frequento i vigneti», precisa. «Sia la famiglia di mia madre, monferrina di Terruggia, sia quella di mio padre, di Celle Ligure, coltivavano l’uva e facevano vino per il proprio consumo. Alla vendemmia ho pigiato anch’io i grappoli con i piedi. E il profumo del mosto non l’ho mai dimenticato».

Un vino di Fraternità

Michele rifiuta il ruolo di protagonista: il Grechetto non è un vino suo, spiega, è il vino della piccola Fraternità che vive nel monastero di San Masseo lavorando la terra come è tradizione da sempre. Perciò ne parla al plurale. «In questi dieci anni», racconta, «abbiamo lavorato per migliorare, imparare, ascoltare consigli e pareri». Se è così, hanno saputo adottare i suggerimenti più azzeccati. Nel vigneto storico si sono limitati a eliminare le poche fallanze. Il loro Assisi Grechetto Doc è quindi l’espressione diretta dei grappoli ricavati da viti di 50 anni, coltivati in un impianto che ha la stessa densità d’allora, 2 mila ceppi/ettaro, ma non è più sfruttato come allora: la resa è tenuta molto bassa, 60-70 quintali/ha, perché la sua qualità sia la più alta possibile. Difatti, se il vino è eccellente, è perché è ottenuto da una materia prima eccezionale.

L’importanza della potatura

Un ruolo fondamentale, per ottenerla, lo gioca la potatura. Michele ne parla con trasporto, e quando lo fa abbandona il plurale: «Potare, per me, è qualcosa di simile alla preghiera. Lo fai da solo, nel silenzio della vigna, e questo ti aiuta a meditare. La meditazione è indispensabile perché devi conoscere le piante se vuoi potarle bene. Non devi forzare i tempi: oggi si tende a fare tutto troppo in fretta. È per questo che non amo usare le cesoie elettriche. Sono troppo veloci, mentre occorre del tempo per sapere dove tagliare quando è difficile perfino capire se quel tralcio è vivo oppure no, perché tutto sembra morto. Recuperare quel tempo ti serve anche per comprendere qualcosa di te stesso».
Ho sempre creduto che per fare un grande vino sia necessaria la passione, oltre a scienza, esperienza e competenza. Scopro adesso che può avere un ruolo anche la spiritualità. Se sia indispensabile non lo so, ma di una cosa sono certo: quando c’è si sente.

Foto di apertura: potare le viti, nel silenzio della vigna, è un po’ come meditare © S. Smyth – Pexels

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© Riproduzione riservata - 02/05/2022

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