Per essere dei leader servono nuove idee
L’Italia non sembra offrire esempi di leadership convincenti nel mondo del vino. Siamo i primi produttori mondiali per quantità, ma fatichiamo a essere considerati un punto di riferimento planetario. Ora serve un cambio di passo.
Quando Maxence Dulou ha raccontato la sua storia dagli schermi della scorsa Milano Wine Week, si è capito il significato di visione aziendale. Lui è un giovane enologo francese che ha lavorato a Bordeaux, in Cile e in Sudafrica. Il gruppo che lo ha assoldato è LVMH (Dom Perignon, Moët & Chandon, Veuve Clicquot, Hennessy, Ruinart e non solo). È stato spedito ai piedi dell’Himalaya per produrre vino a 2600 metri d’altitudine.
Ao Yun, gran cru dell’Himalaya
Prima di lui, uno scienziato australiano ha girato la Cina in lungo e in largo per cinque anni. Fino a quando, analizzando terreni e fotografandoli con droni e satelliti, ha trovato la zona ideale per produrre un vino asiatico di lusso. Si chiama Ao Yun (significa «volare sopra le nuvole»), costa fino a 300 euro a bottiglia, è un blend di Cabernet Sauvignon (74%), Cabernet Franc (20%), Syrah (4%), Petit Verdot (2%). Nasce nella provincia dello Yunnan, nella regione di Shangri-la. È il primo Grand Cru dell’Himalaya, nel 2016 è stato il primo vino cinese ad essere scambiato sul Live-ex.
La scommessa di LVMH
Bernard Arnault, il capo di LVMH (53 miliardi di fatturato, 160 dipendenti, più di 70 marchi) ha puntato su un mercato in piena evoluzione: i cinesi sono il quinto importatore di vino nel mondo, bevono poco (1,24 litri l’anno a testa, mentre noi e i francesi superiamo i 30), ma si stanno lasciando alle spalle la fase dell’ingenuità, quella in cui i più ricchi acquistavano costosi vini francesi solo come status symbol. Duplice l’obiettivo di Arnault: dare ai cinesi un “loro” vino premium e creare una nuova zona mondiale di eccellenza per i classici che arrivano da luoghi estremi.
Il problema italiano
Ora la domanda è: perché nessun grande gruppo italiano ha questo tipo di visioni imprenditoriali? La domanda forse dovrebbe essere: perché non esiste un grande gruppo italiano che metta assieme moda editoria, hotellerie, liquori e vino? Forse perché restiamo l’Italia dei Comuni e dei campanili dove ognuno punta a superare il vicino, a primeggiare nella sua Doc o Docg, a farsi largo nella propria regione. Ma in questo modo difficilmente l’Italia riuscirà a conquistare la leadership mondiale del vino.
Sono tante le occasioni mancate
Anche quest’anno i dati dell’Oiv sulla vendemmia confermano che restiamo i primi produttori mondiali. Siamo quelli che possono contare sulla varietà più vasta di vitigni autoctoni. Siamo l’unico Paese al mondo in cui tutte le regioni producono vino. E siamo stati i protagonisti del Rinascimento seguito allo scandalo del metanolo, con una energia che ha spinto verso l’alto la qualità dei vini trascinando tutta l’Europa. Eppure fatichiamo ad essere considerati il punto di riferimento planetario del vino. Insidiati dal basso, da australiani e cileni che investono in Asia e conquistano posizioni. E dall’alto, dalla Francia innanzitutto. Eppure doveva essere l’anno in cui potevamo trarre vantaggio dalle difficoltà dei francesi, alle prese con una dura politica dei dazi imposta da Trump.
Strategie diverse tra Francia e Italia
La diffusione del Covid non ha sovvertito le parti. Anzi, ha confermato le posizioni. Così mentre in Francia si finanziava per la seconda volta un piano di aiuti per la distillazione dei vini d’origine controllata, in Italia si sprecavano i due terzi dei fondi, destinandoli solo ai vini comuni. Alla fine, i punti di forza si trasformano in punti di debolezza. Preoccupa la grande quantità di uve raccolta, perché le cantine sono già piene, con 32 milioni di ettolitri che aspettano la ripresa dei consumi in tutto il mondo.
La leadership si conquista con idee nuove e competenza
All’orizzonte c’è un periodo che chiederà inventiva, creatività e competenza per convincere i mercati mondiali, quando l’incubo del Covid sarà alle spalle, a comprare italiano. Anche perché ci sarà un assalto da molte altre nazioni produttrici. Servono aiuti pubblici che centrino davvero il bersaglio, investimenti comuni dei produttori nella comunicazione e nella promozione, attenzione costante alla qualità in tutte le fasce, dai vini base a quelli super premium. L’Italia può diventare il Paese leader del vino, ma deve ripensarsi. E agire con unità, lungimiranza e idee nuove.
Tag: controvento, La Terza Pagina, leadershipLa Terza Pagina è dedicata alla cultura del vino e ospita opinioni su temi di ampio respiro. Questa settimana vi proponiamo una riflessione di Luciano Ferraro sulla leadership nel mondo del vino, ambito in cui l’Italia fatica ad affermarsi, dalla rubrica Controvento di Civiltà del bere 4/2020 (ottobre-novembre-dicembre).
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© Riproduzione riservata - 13/11/2020