Scienze Scienze Riccardo Oldani

L’antica uva della Valpolicella a Colombare di Negrar

L’antica uva della Valpolicella a Colombare di Negrar

Una campagna di scavi archeologici a Colombare di Negrar in Valpolicella ha dimostrato l’allevamento e l’utilizzo dell’uva in tempi antichissimi, già nel 4.300 a.C. Ancora non è chiaro se i frutti delle viti selvatiche, che venivano maritate al nocciolo, fossero consumati come alimento o trasformati in vino. Futuri studi lo chiariranno.

Negrar, in Valpolicella (Verona), è una località con una lunghissima e prestigiosa tradizione in fatto di vino. In queste terre sono nate produzioni di prestigio, come quelle dell’Amarone, del Ripasso o del Recioto, e le vigne fanno parte del paesaggio da sempre. Ma che addirittura qui si coltivasse l’uva oltre 6.000 anni fa probabilmente non se lo sarebbe aspettato nessuno. A scoprirlo è stato un team di archeologi del Dipartimento di beni culturali e ambientali dell’Università degli Studi di Milano, che dal 2019 ha avviato una campagna di scavi e di indagini nel sito di Colombare di Negrar, già noto per la scoperta di un insediamento e di antichi manufatti negli anni Cinquanta.

Maritata con il nocciolo

Sotto la direzione scientifica di Umberto Tecchiati, docente dell’ateneo milanese, e con l’imprimatur della Soprintendenza all’archeologia, belle arti e paesaggio per le province di Verona, Rovigo e Vicenza i ritrovamenti e le successive analisi di laboratorio hanno infatti dimostrato che l’antica popolazione che visse nel sito su un arco temporale lunghissimo, più o meno dal 4.300 al 1.300 a.C., usava allevare la vite selvatica maritandola con il nocciolo.

Un rapporto equilibrato con la natura

«È una testimonianza chiara», dice Umberto Tecchiati, che alla Statale di Milano insegna Preistoria ed Ecologia protostorica, «di come gli abitanti del luogo avessero individuato un’area, vicino al loro insediamento, che avevano adibito a questa particolare forma di allevamento. Non parliamo di una coltura vera e propria, come la intendiamo oggi, perché la vite in questione non era domestica, ma selvatica, e più che coltivata era protetta, accudita da quelle antiche genti».
Il ritrovamento è particolare anche perché non si aveva notizia di un utilizzo così antico dell’uva nell’Italia settentrionale, culturalmente ancora molto distante, all’epoca, rispetto a zone mediterranee, come la Sicilia o la Sardegna, dove invece l’uso era già diffuso e attestato.

Pollini e tronchi antichi

La campagna avviata nel 2019, e poi proseguita con scavi nel 2020 e nel 2021, riflette gli ultimi orientamenti in materia di archeologia, che mirano non tanto e non più a recuperare manufatti, come punte di selce lavorata o terrecotte, ma a capire in che modo gli antichi si rapportassero e interagissero con l’ambiente in cui vivevano.
«Il nostro», dice Tecchiati, «è un taglio paleoambientale, fondato, tra l’altro su indagini palinologiche, cioè di analisi dei pollini rimasti intrappolati nei sedimenti antichi, e archeobotaniche, per esempio condotte sui tronchi carbonizzati che si sono conservati fino ai nostri tempi»

Alla ricerca del vino

Il sito delle Colombare era stato scoperto nel 1951 da Giovanni Solinas e poi studiato a partire dal 1953 dal paletnologo Francesco Zorzi, con scavi che hanno rivelato un gran numero di reperti. La nuova campagna della Statale di Milano lo ha scelto per la sua nuova serie di studi anche per la sua particolarità; è uno dei pochi, nell’Italia settentrionale, ad aver restituito reperti architettonici risalenti alla Preistoria recente.
«Non ci aspettavamo, in effetti, di trovare indicazioni dell’utilizzo della vite», prosegue Tecchiati. «Al momento non sappiamo ancora se i grappoli, all’epoca, fossero semplicemente consumati come un alimento o se erano utilizzati per produrre una bevanda fermentata come il vino. Tra i progetti per i futuri scavi e indagini, comunque, abbiamo anche in programma analisi sugli impasti ceramici trovati nel sito, per verificare se rechino tracce di tannini che potrebbero essere ricondotti alla presenza di vino».

Studi costosi

Indagini di questo genere sono costose, perché le campagne di scavo durano ogni anno qualche settimana («di solito a settembre», ci confida Tecchiati), e vedono la partecipazione di studenti. Ma al di là dell’aspetto logistico anche le analisi condotte sui reperti richiedono un notevole impegno economico, che coinvolge non solo l’Università di Milano ma anche la partecipazione della Soprintendenza di Verona, oltre al supporto del Comune di Negrar di Valpolicella.

Un’intensa attività social

La partecipazione di sponsor è sempre ben accetta, e i responsabili della ricerca sperano di stimolarla anche grazie alle ricadute culturali e alle attività di informazione che accompagnano il lavoro degli archeologi. Numerosi gli eventi realizzati in passato per illustrare le scoperte fatte; sono inoltre attive pagine su Facebook, Instagram e Youtube da cui si possono seguire i progressi compiuti e le attività condotte. L’ateneo milanese ha anche creato una pagina web per fornire le informazioni principali sul progetto.

Foto di apertura: uno degli scavi aperti dagli archeologi della Statale di Milano a Colombare di Negrar, in Valpolicella

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© Riproduzione riservata - 23/11/2021

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