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L’ambigua piramide della qualità del vino italiano

L’ambigua piramide della qualità del vino italiano

Per l’Italia, che produce più vino di quanto ne consumino i suoi abitanti, l’esportazione non è un optional, è una necessità. Ma è anche una straordinaria opportunità perché in quasi tutte le regioni la produzione enoica è di grande interesse qualitativo. Fondamentale è però che questa biodiversità venga percepita in tutta la sua ricchezza dai potenziali consumatori.

Finora si è cercato di soddisfare questa esigenza con mille iniziative frazionate, ognuna intesa a promuovere una determinata tipologia. Se fossero coordinate da un disegno strategico sarebbero sicuramente utilissime, ma nel frattempo è forse più opportuno cominciare più a monte e chiedersi se il biglietto da visita con cui i vini italiani si presentano nel mondo, articolato sulle denominazioni d’origine, sia valido ed efficace.

La denominazione d’origine compie 56 anni

Istituita per i vini italiani il 12 luglio 1963 dal decreto del Presidente della repubblica n. 930, la denominazione d’origine ha dimostrato nei 56 anni trascorsi da allora come un’idea lungimirante, che aveva ottenuto largo consenso, introducendo l’acronimo Doc nell’immaginario popolare e nella lingua effettivamente parlata, abbia poi dato risultati deludenti: se i vini italiani a Doc, Docg e Igt sono più di 520, ma neanche gli italiani più appassionati li conoscono tutti, e all’estero riescono a identificarne solo sei o sette, è evidente che come sistema comunicativo le denominazioni d’origine lasciano parecchio a desiderare.

I disciplinari scritti dai produttori

Come mai? Si tratta purtroppo di un vizio d’origine. Governo e parlamento avevano avvertito fin dagli anni ’50 l’urgenza di una normativa sulle denominazioni d’origine, che attribuendo riconoscibilità territoriale ai vini ne avrebbe orientato la produzione verso la qualità. Si erano però presto resi conto ch’era impossibile elaborarla, con una situazione politica talmente instabile da impedire ai governi di durare più di sei mesi. Ecco perché il Dpr 930 era una specie di legge delega, nel senso che affidava l’incarico di formulare il disciplinare produttivo di ogni singolo vino ai suoi stessi produttori, impegnandosi a emanare le norme da loro elaborate, sia pure dopo opportune verifiche.

Più che una regolamentazione, un censimento dell’esistente

Di conseguenza la legge, rinunciando a proporre modelli di sviluppo, si limitò a censire l’esistente, accettando di regolamentarlo disordinatamente così come arrivavano le richieste, senza distinguere tra le denominazioni che coinvolgevano metà di una regione come il Chianti e quelle di nicchia, che interessavano un piccolo comune e le località limitrofe, come il Rubino di Cantavenna, consentendo troppo spesso produzioni esageratamente elevate, come chiedevano i produttori, convinti che il vino fosse ancora un alimento indispensabile nella dieta degli italiani e quindi bisognasse farne tanto al minor prezzo possibile.
Le correzioni apportate nel 1992 dalla legge 164, pur positive, hanno dimostrato che ci vuole ben altro che qualche ritocco per eliminare i due difetti più gravi dell’attuale normativa.

Il Masseto, uno dei vini italiani più famosi al mondo, è un Igt Toscana

Il paradosso (per esempio) del Masseto

Il primo è la mancanza di un disegno organico che consenta di scaglionare le denominazioni d’origine sui gradini di una piramide della qualità credibile e verificabile. Quella attuale non lo è, basta un esempio a dimostrarlo: uno dei vini italiani a cui il mercato riconosce i prezzi più alti, il Masseto, non può fregiarsi della sigla ufficiale di massimo prestigio, la Docg (Denominazione d’origine controllata e garantita), deve accontentarsi d’essere un vino a Igt (Indicazione geografica tipica), cioè sullo scalino più basso nella scala ufficiale del valore.

Il grave difetto dell’ambiguità territorio/vitigno

L’altro difetto che bisognerebbe eliminare è l’ambiguità: perché l’idea di ancorare i nomi dei vini italiani ai territori vinicoli anziché alle varietà viticole dia i suoi frutti è indispensabile applicarla con rigore, credendo alla sua validità. Viceversa, troppo spesso sono state adottate denominazioni volutamente ambivalenti, imperniate sull’origine geografica solo a metà e per l’altro 50% sulla varietà d’uva da cui i vini sono tratti: da Barbera d’Asti a Malvasia delle Lipari, i casi di denominazione bifronte sono innumerevoli.

Le varietà non sono tutelate, le origini geografiche sì

E pericolosi, perché mentre la denominazione geografica è tutelata da accordi internazionali, il nome del vitigno non lo è. E quando un vino ha successo, è inevitabile che qualcuno all’estero lo scopiazzi, come è successo al Brunello di Montalcino e al Prosecco. Sia l’uno che l’altro sono stati messi in sicurezza all’ultimo momento con un paio di furbate. È un vecchio vizio italiano, quello di privilegiare la furberia al rigore. Non è venuto il momento di smettere?

Foto di Adam Derewecki da Pixabay

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© Riproduzione riservata - 23/08/2019

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