Scienze Scienze Riccardo Oldani

Dna per la tracciabilità del vino: uno studio italiano

Dna per la tracciabilità del vino: uno studio italiano

L’idea di utilizzare il dna per certificare origine e tracciabilità del vino da tempo accarezza gli esperti, soprattutto per quanto riguarda i vini monovarietali, in cui i geni del vitigno si trasferiscono pressoché integri nella bottiglia. Ora una ricerca italiana mostra però la validità del metodo fino a otto mesi dopo il confezionamento. Dopodiché l’impronta genetica comincia a degradarsi.

È ricorrente l’idea di utilizzare la traccia genetica di un vino come una carta d’identità in grado di raccontarne in ogni momento origine e tracciabilità. Il dna, insomma, svolgerebbe la funzione di un’impronta digitale in grado di mettere al riparo i produttori da qualsiasi tentativo di falsificazione o adulterazione. Le tecniche di estrazione di segmenti della molecola a doppia elica negli ultimi anni si sono sempre più affinate e sono diventate meno costose, come è avvenuto per esempio per la PCR, la reazione a catena della polimerasi, oggi effettuata con macchinari che costano poche migliaia di euro. Quindi analisi di questo tipo sono oggi praticamente alla portata di tutti.

Una ricerca mirata

Tutto bellissimo, a parte il fatto che anche il dna nel tempo si degrada, come sanno bene gli appassionati di “cold case”, le indagini condotte su delitti compiuti nel passato. Quanto a lungo, dunque, è possibile rinvenire sequenze geniche intatte di un vitigno dopo che questo è stato trasformato in vino? Per scoprirlo ha indagato un team di ricercatori dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza appartenenti a due dipartimenti diversi, quello di Produzioni agricole sostenibili e quello di Processi alimentari sostenibili. Il loro lavoro, leggibile online dallo scorso 13 luglio sul volume 142, di dicembre 2022, della rivista scientifica “Food Control”, mette in luce alcune cose interessanti.

Bonarda e Pinot grigio

L’équipe piacentina ha lavorato su due vini monovarietali prodotti da una cooperativa, un rosso vivace,  Bonarda Dop, e un bianco, Pinot grigio Dop. Entrambi sono stati oggetto di prelievi periodici del Dna, con una cadenza di dieci giorni durante tutta la fase precedente al confezionamento, nel giorno dell’imbottigliamento e, successivamente, dopo 2, 8 e 12 mesi. Lavorare con un grande produttore ha consentito di seguire con agio tutta l’evoluzione dei prodotti.

Fino a otto mesi dopo l’imbottigliamento

Quali sono stati i risultati? Per dirla in breve, l’estrazione e il tracciamento del Dna sono possibili per entrambi i vini almeno fino all’ottavo mese dopo l’imbottigliamento. Dopodiché il processo di degradazione comincia a rendere sempre più complicata, se non impossibile, la corretta identificazione della varietà; in particolare per il vino rosso, cioè per la Croatina utilizzata nella produzione della Bonarda. Nel Pinot grigio il dna era invece ancora riconoscibile dopo un anno in bottiglia.
Specifici tratti del genoma, in particolare nove marker, sono stati selezionati con il metodo SSR (Simple Sequence Repeats). I nove marker corrispondono al set minimo per assicurare l’identificazione delle varietà d’uva utilizzate; la loro analisi aveva lo scopo di confermare che i campioni raccolti fossero integri e corrispondenti a quelli raccolti direttamente sull’uva prima della vinificazione.

Sui bianchi l’analisi funziona meglio

Un primo passo della ricerca ha quindi dimostrato che possono essere recuperati dai vini profili genetici affidabili lungo tutto il processo produttivo fino al momento del confezionamento e per otto mesi almeno dopo l’imbottigliamento.
Il Pinot grigio si è rivelato più facile da analizzare, confermando l’idea che il Dna dei rossi va incontro a un livello superiore di degradazione. Probabilmente la causa è nell’azione di sostanze come tannini e metaboliti presenti in maggiore quantità nei rossi; e anche per il metodo di conservazione e per l’azione, nella Bonarda vivace, dell’anidride carbonica.

Conclusioni e nuovi progetti

In conclusione, finché non viene imbottigliato e poi per almeno altri otto mesi dopo il confezionamento il dna, come dimostra lo studio piacentino, può essere senz’altro utilizzato per la tracciabilità e il riconoscimento di uno specifico vino monovarietale. Un’informazione che può rivelarsi molto utile per i produttori e per chi vigila contro possibili frodi.  Già nel 2021 il gruppo piacentino aveva pubblicato uno studio su due rossi, un Pinot nero e un Rosso Oltrepò Igt, ottenuto quest’ultimo da un assemblaggio di Barbera, Croatina, Uva rara, Vespolina e Cabernet Sauvignon. Il documento aveva dimostrato come, anche attraverso tutte le fasi della vinificazione, il dna dei singoli vitigni si mantenga integro e possa essere estratto. Ora, dicono gli studiosi, ulteriori ricerche sarebbero necessarie per capire quanto a lungo, dopo l’imbottigliamento, sia possibile riconoscere le diverse varietà utilizzate in un blend.

Foto di apertura: la doppia elica del dna. Specifici marker, che individuano in modo univoco i vitigni, si conservano nel vino anche dopo la produzione e per almeno otto mesi dopo l’imbottigliamento © S. Lohakare – Unsplash

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© Riproduzione riservata - 06/09/2022

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