Dal Collio alla Sicilia, la carica degli “orange”
Qualche giorno fa è stato pubblicato Le degustazioni dell’enoluogo: grandi bianchi in abito rosso, un tasting interno nel “salotto del vino” di Civiltà del bere, sui cosiddetti “bianchi macerativi”. Si tratta di un’inedita categoria di vini fermentati e macerati sulle bucce, che da una decina di anni a questa parte ha fatto “irruzione” nel nostro universo enoico e che si rifà, in certe aree, al recupero di un arcaico protocollo di vinificazione contadina, in altre alla filologica rivisitazione dell’approccio georgiano all’enologia, in altre ancora a un mero fenomeno di modaiola emulazione. Per fare un po’ di chiarezza al riguardo, pubblichiamo ora il servizio del giornalista Roger Sesto sui “bianchi macerativi” uscito sul numero di marzo-aprile.
BIANCHI MACERATIVI: FAMIGLIA A PARTE – Innanzitutto i “bianchi macerativi” non sono un modo alternativo di produrre vini bianchi, ma sono una tipologia del tutto a sé. Così come esistono i rossi, i bianchi, gli spumanti, i passiti, i rosati, ci sono oggi anche i bianchi fermentati e affinati sulle bucce, che essendo una categoria produttivamente diversa rispetto a tutte le altre meriterebbe un proprio, specifico nome (orange, per esempio, come si fanno chiamare all’estero). Di conseguenza, così come un’azienda può produrre allo stesso tempo diversi tipi di vino, va accettato anche il fatto che un medesimo produttore realizzi bianchi “moderni” e bianchi “macerativi”, al limite anche con la stessa uva/uvaggio, dato che le due tecniche produttive così diverse fra loro condurranno a risultati altrettanto radicalmente difformi.
I “PURISTI” DEL GENERE E I DETRATTORI – In questo senso, è alquanto curioso notare che sovente, a dispetto di quanto chiarito sopra, oggi chi offre bianchi “macerativi” ha scelto di non occuparsi più di bianchi “normali”, quasi a sostenere che la tecnica della macerazione sia l’unica strada per produrre degli autentici bianchi. È chiaro che un approccio di questo tipo è puramente ideologico. D’altra parte, merita di essere stigmatizzata anche la presa di posizione di coloro che sono contrari a questa pratica di cantina, sostenendo superficialmente che produrre bianchi macerativi sia una stravaganza senza alcun senso, una tecnica che appiattisce le diverse sfumature date dal terroir e i tratti varietali infusi dal vitigno, rendendo tutti questi vini omogenei fra loro, e per di più – a detta dei più strenui detrattori della tipologia – persino sgradevoli e poco beverini. In realtà i fatti non stanno in questi termini: non è vero che automaticamente macerazione vuol dire omogeneizzazione dei vini e sgradevolezza, anzi! Il vero problema è che finché non si arriva alla definitiva accettazione del semplice fatto che gli orange sono una categoria specifica, con proprie logiche e peculiarità distinte da quelle degli altri bianchi, queste due opposte fazioni seguiteranno a combattersi a suon di aprioristiche prese di posizione, più o meno faziose e ideologiche.
NATURALITÀ: UN EQUIVOCO DA CHIARIRE – Va sgombrato il campo da un singolare e malizioso equivoco, che vorrebbe insinuare l’equazione: bianchi macerativi = vini naturali. A parte il fatto che molti dei fattori afferenti la naturalità di un vino risiedono in vigna, prima che in cantina, bisogna sempre entrare nel merito di ciascuna etichetta prima di sentenziare in un senso o nell’altro. Per la produzione dei bianchi normalmente diffusi, è molto difficile non essere costretti a impiegare un minimo di accorgimenti enologici legati alle tecnologie moderne, in quanto sono in sé poco stabili e soggetti a tutta una serie di alterazioni che minerebbero la loro integrità e piacevolezza. All’opposto, gli orange sono vini assai stabili: la loro permanenza sulle bucce durante e dopo la fermentazione è una formidabile e naturale fase di auto-stabilizzazione del vino; poiché un tocco di solforosa (anche molto poca) dopo la tardiva svinatura è tutto ciò che si rende necessario perché a quel punto il vino è già definito, ulteriori manipolazioni di cantina sarebbero semplicemente inutile. Da tutto ciò si evince che non sono tanto i produttori a determinare una maggiore o minore “naturalità” delle due tipologie di vini, ma sono queste ultime che oggettivamente impongono strade da seguire differenti, soprattutto in cantina. Che poi chi si dedica agli orange sia spesso molto attento a ridurre drasticamente i trattamenti in vigna (viticoltura biologica, biodinamica, naturale), è un aspetto ideologico di coerenza con la tipologia prodotta, più che una conditio sine qua non assoluta per la produzione di vini macerati, e d’altra parte anche molte aziende che producono i consueti bianchi hanno ormai abbandonato l’uso qualsiasi sostanza di sintesi.
ORANGE: LA CERTEZZA RIBOLLA – Con gli orange, a ben vedere, non si è inventato nulla, ma si è ripresa e attualizzata una pratica molto invalsa in certe aree della Penisola prima dell’avvento della catena del freddo, della lavorazione in riduzione, delle nuove tecnologie enologiche in generale, ma anche prima che – negli anni Ottanta – si affermasse la moda dei vini bianco-carta. Vinificando le uve bianche in rosso, ossia con un contatto più o meno lungo delle bucce col mosto in fermentazione si hanno certamente nettari molto diversi da quelli abituali. Le sostanze che danno longevità, struttura, possibilità di evolvere stanno tutte nella buccia, e al proposito vi sono diverse scuole di pensiero circa la durata della macerazione. I tempi sono decisivi. Secondo alcuni enologi, quando si superano i sette giorni di contatto vino-bucce, soprattutto se non vi è controllo delle temperature, caratteristiche di terroir e vitigno tendono a stemperarsi. Inoltre il processo provoca un fisiologico abbassamento dell’acidità, perciò se il clima è caldo, non vi è termoregolazione, e la varietà impiegata ha già di suo un basso grado di tartarico, si rischia di ridurre eccessivamente la componente acida, contestualmente a una elevata estrazione di polifenoli (tannini, soprattutto); il che porta a fenomeni ossidativi che allontanano le caratteristiche organolettiche del vino da quelle determinate da terroir e vitigno. Un discorso a parte parrebbe meritare la Ribolla Gialla: in questo caso, anche chi si dichiara nemico degli orange sembra mostrare maggior indulgenza. Questa cultivar, grazie alla sua assai spessa buccia, ha molte sostanze presenti nelle vinacce che sarebbe un peccato dissipare senza almeno aver praticato un poco di macerazione: non è un caso che tra i primi a reintrodurre la vinificazione in rosso di uve bianche siano stati i produttori di Ribolla Gialla, in particolare del Collio goriziano. Ma restano sostanzialmente opinioni. Finora nessuno ha davvero dimostrato se e quanto conviene macerare, in che recipiente, quali vitigni (Ribolla Gialla a parte), a fini di una superiore qualità organolettica e dal punto di vista del rispetto delle caratteristiche del binomio vitigno-territorio. Certo alcune sfumature varietali si disperdono con metodi eccessivamente estremi, ma d’altra parte, si può guadagnare in complessità e in longevità.
TINTE MOLTO CALDE E STRUTTURA CHE CONTA – Certamente vi sono delle caratteristiche che accomunano questi vini, a prescindere da ogni altro fattore. Partendo dalla colorazione, gli orange assumono tinte molto cariche, tra l’oro antico, l’aranciato e l’ambra. Hanno una struttura importante, anche in funzione dei recipienti di affinamento e dei tempi di macerazione. Non è infrequente una certa pungenza da acidità volatile, voluta sia per esprimere meglio i profumi, sia per conservare in maniera ottimale il vino, di solito in questi casi assai poco dosato di solfiti. I ventagli olfattivi in alcuni casi sembrano interminabili, molto complessi, solo apparentemente evoluti, dalle intriganti note candite, speziate, tostate. Al gusto poi sono spesso molto sapidi, quasi salini a compensare un’acidità che potrebbe non essere prorompente, e ovviamente hanno un’insolita presenza tannica dovuta al contatto con le bucce. Tutto ciò porta a uno strano connubio fra struttura e bevibilità.
COLLIO E CARSO – Pur se i primi bianchi macerati si sono diffusi a partire soprattutto dal Collio goriziano, protagonista la Ribolla Gialla, ormai sono presenti esempi di orange in ogni angolo della Penisola. Partendo proprio dal Collio, vanno segnalati due grandi della viticoltura goriziana: Radikon e i fratelli Bensa de La Castellada con la loro Ribolla Gialla dal lungo affinamento. Il primo ci offre anche una testimonianza esemplare sulle ragioni di produrre un bianco macerato: «Perché optare per un orange? La Ribolla ha un acino carnoso e dotato di una buccia molto spessa: con la vinificazione in bianco non si riescono a valorizzare tutte le sue peculiarità. Dopo molti studi, siamo arrivati alla conclusione che la Ribolla, per dare il massimo, va macerata sulle sue bucce, sino a tre mesi. Così facendo si possono estrarre tutte le sostanze che ne danno il gusto e che ci permettono di conservare il vino senza aggiungere o togliere niente. Con tale tecnica ci siamo resi conto che così si beneficia di un’incredibile mole di sostanze, con il risultato di ottenere un prodotto che non ha nulla da invidiare ai vini ottenuti da varietà internazionali ben più blasonate. Dopo varie sperimentazioni, nel 1995 abbiamo imbottigliato la prima Ribolla Gialla totalmente macerata sulle sue bucce. Secondo noi questo metodo di vinificazione rende sicuramente il vino più longevo, oltre che decisamente più complesso. Inoltre negli anni abbiamo anche eliminato l’aggiunta di solforosa», ha detto Stanislao Radikon.
Nel Carso, in Benjamin Zidarich troviamo un’altra figura mitica, che ha percorso la strada della macerazione con la Malvasia Istriana e soprattutto con la Vitovska, vitigno acido e salino, molto adatto alla vinificazione in rosso: «Io sono un tradizionalista, voglio trasmettere il mio territorio attraverso l’utilizzo di vitigni autoctoni».
VENETO ED EMILIA-ROMAGNA – Alessandro Sgaravatti di Castello di Lispida (Monselice, Padova), medico-poeta-vignaiolo, ci porta in assaggio il suo Amphora, un Tocai in purezza e ci racconta: «Per me tradizione significa un radicale ritorno alle origini, ovvero alle anfore di terracotta, il cui impiego comporta a monte, in vigna e in cantina, una lavorazione di un certo tipo. Normalmente per tradizione si intende quel bagaglio di conoscenze codificato sino agli anni Cinquanta, prima dell’avvento dell’acciaio e della termoregolazione. Ma io l’ho interpretata in modo più radicale, andando ben oltre. La vinificazione classica già la facevo (e la faccio tuttora), ma volevo spingermi ancora più a ritroso, per dimostrare che con metodi arcaici, senza tecnologia né chimica, è possibile ottenere un vino interessante, naturale, longevo».
Spostandosi in Emilia, Elena Pantaleoni de La Stoppa di Rivergaro (Piacenza) spiega: «L’Ageno, blend di Malvasia, Trebbiano e Ortrugo resta molto tempo a contatto con le bucce: anche questo è un modo di esprimere il territorio: le lunghe macerazioni evidenziano quei tipici caratteri di aromaticità che sono propri dell’uva coltivata in climi caldi e siccitosi».
LIGURIA – In Liguria sono ormai diversi i produttori che hanno intrapreso la strada degli orange; nello spezzino troviamo Stefano Legnani e Santa Caterina, entrambi con etichette a base di Vermentino, Ponte di Toi per il primo e Poggi Alti per il secondo. Legnani in particolare ha optato per una macerazione di sette giorni, senza controllo delle temperature, né altri interventi. A Ponente, nei pressi di Albenga, Le Rocche del Gatto di Fausto De Andreis produce esclusivamente orange (a parte un rosso). Di più: ogni anno i tempi di macerazione via via aumentano, con una tecnica atta a evitare processi ossidativi e a promuovere quel bonus estrattivo tipico dei più riusciti bianchi vinificati in rosso. Il Riviera Ligure di Ponente Pigato ha oggi tempi di macerazione di 15 giorni, che sono doppi rispetto al passato, ma inferiori ai protocolli futuri (si supereranno i 20 giorni). Questo modus operandi è dovuto alla profonda convinzione di De Andreis che il Pigato della tradizione fosse un vino così vinificato. Tanto che anni fa a un suo bianco non venne riconosciuta la Doc, perché risultava troppo carico di colore: ne scaturì il famoso Spigau Crociata.
MARCHE E SICILIA – Ma anche al Centro-sud non mancano esempi decisamente interessanti, come i Verdicchio di Pievalta a Maiolati Spontini, nell’anconetano, un’azienda biodinamica del gruppo Barone Pizzini di Franciacorta, parzialmente macerati e fermentati in anfora, oltre che la giovane Arianna Occhipinti, che a Vittoria (Ragusa) produce vini dissacranti e molto coraggiosi, evitando in toto ogni pratica invasiva, macerando e impiegando solo lieviti indigeni, come nel particolarissimo SP68, Albanello e Moscato di Alessandria.
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