Vite e cannabis? Una convivenza difficile. Il caso della West Coast americana
In California, dove la coltivazione della marijuana per usi terapeutici e ricreativi è consentita da alcune contee, i produttori di vino cominciano a preoccuparsi per una possibile interferenza con la loro attività. Lo indica una ricerca della Master of Wine Clare Tooley. Ma il problema, in vista di future, possibili liberalizzazioni, potrebbe riguardare anche altre zone vinicole.
Nella storia delle produzioni agricole esistono casi di associazioni di colture che si sono affermate e sviluppate insieme per una serie di fattori, come la predilezione per lo stesso tipo di terreno o di condizioni climatiche. Un esempio è quello della vite e della Cannabis sativa, che anticamente, con datazioni che risalgano fino al 4.000 a.C., venivano comunemente allevate insieme vicino alle abitazioni. In quell’epoca la canapa era doppiamente apprezzata; forniva fibre utilizzate per la produzione di tessuti e manufatti e aveva proprietà alimentari e “ricreative”.
Strade separate
In tempi moderni, però, le due colture hanno preso strade differenti. Vite e vino sono entrati nella tradizione come prodotti “buoni”, socialmente e moralmente accettati; mentre la cannabis è stata demonizzata, in particolare quella con alti contenuti di THC (il principio attivo euforizzante della pianta). I percorsi delle due pratiche agricole si sono così separati. La coltura della vite si è diffusa in tutto il pianeta; quella della canapa è stata consentita solo per le varietà della pianta a basso contenuto di THC. Ora però le cose stanno cambiando, e sono sempre più numerosi i territori in cui si discute se legalizzare o meno le piantagioni di Cannabis sativa per uso ricreativo.
La West Coast americana
Un’area del mondo dove questo sta già avvenendo, fin dalla fine degli anni Novanta, è la costa ovest degli States. In alcune contee dell’Oregon e della California, infatti, la produzione di cannabis è stata legalizzata, creando una situazione particolare. Infatti gli sbocchi di mercato, a causa di una legislazione che non è uniforme negli Usa e nel mondo, sono in parte legali e in parte illegali. Questo fa sì che, dove questo tipo di coltura è consentito, la resa del terreno, in termini di fatturato per ettaro, ha raggiunto livelli elevatissimi, ben superiori a quelli di un’eguale estensione di vigneto. In altre parole, ci sono zone della West Coast degli Usa in cui conviene di gran lunga produrre marijuana anziché vino. Le due specie vegetali hanno più o meno le stesse esigenze; comincia quindi a concretizzarsi l’eventualità che anche vigne “premium class” possano essere rimpiazzati da campi di “erba”.
Uno studio sulla contea di Sonoma
Una situazione al momento molto localizzata, ma su cui ha deciso di indagare la Master of Wine Clare Tooley, Wine Development Director di un primario importatore di vino statunitense, Lionstone International. Tooley ha focalizzato la sua attenzione sulla Sonoma Valley, uno dei centri d’eccellenza della viticoltura californiana, dove anche la produzione di cannabis è consentita, al contrario di quanto avviene, invece, nella vicina contea di Napa. Nello studio che ha prodotto per il Masters of Wine Institute (scaricabile qui), Tooley ha intervistato un buon numero di produttori locali e analizzato nel dettaglio i numeri della possibile competizione tra cannabis e vite, dimostrando che, nella situazione attuale, non c’è partita. Nella contea di Sonoma, per esempio, ogni acro di vigneto produce un ritorno annuo di 13.000 dollari, contro un milione di dollari generato da un acro coltivato a cannabis.
Competizione sulle denominazioni
Tra l’altro, questa industria sta puntando a un marketing ispirato a quello del vino, che punta all’indicazione di aree di produzione “premium”, corrispondenti a quelle già note in ambito vinicolo. Un sistema di denominazioni che le Cantine vorrebbero proteggere e tenere ben distinto da quello utilizzato dai produttori di canapa indiana, per evitare confusioni.
Una ricerca pionieristica
Lo studio è interessante, dato il particolare “status” della marijuana. La sostanza, a cavallo tra il lecito e l’illecito, secondo le statistiche è consumata da almeno un terzo della popolazione statunitense. Ed è vietato alle università condurre studi in materia, anche connessi alle pratiche di coltura. Manca quindi completamente una valutazione dell’impatto economico legato alla liberalizzazione, e il lavoro di Clare Tooley rappresenta un’esperienza pionieristica al riguardo.
Una concorrenza che cresce
Al momento, osserva la studiosa, la concorrenza tra le due colture è ancora minima e percepita dai produttori di vino più come un fastidio che come una reale minaccia. Ma in una prospettiva più ampia, i viticoltori vedono profilarsi problemi più seri, dalla competizione per accaparrarsi forza lavoro, a quella per le risorse naturali, come l’acqua, che il riscaldamento climatico sta rendendo sempre più preziosa in California. Sono quindi maturi i tempi perché a livello normativo si tenga conto di una nuova situazione in fieri, in modo da consentire lo sviluppo di entrambe le attività senza al tempo stesso danneggiarle. Ma, raccomanda Tooley, sarebbe anche opportuno che i produttori si confrontassero e collaborassero per una gestione equa e condivisa delle risorse.
E agli italiani che cosa importa?
Tutto questo discorso ha qualche interesse per la situazione italiana? Non in tempi brevi, ma in futuro forse sì. Proprio in queste settimane, infatti, in Italia dovrebbero essere emanati i bandi per assegnare i diritti di coltivazione della Cannabis sativa per uso terapeutico. Il nostro Paese punta infatti a rendersi autosufficiente e non dipendere da mercati non controllati. Si tratterebbe di piccole estensioni e di minime quantità. Ma anche di una grande novità che potrebbe portare a evoluzioni da prevedere e pianificare attentamente.
Foto di apertura: © crystalweed – Unsplash
Tag: California, canapa, cannabis, Cannabis sativa, Italia, marijuana, Napa Valley, Oregon, Sonoma, THC, Usa, West Coast© Riproduzione riservata - 19/11/2021