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Barbera d’Asti 2.0: c’è un premier cru… ma non si può farlo sapere

Barbera d’Asti 2.0: c’è un premier cru… ma non si può farlo sapere

Il progetto si chiama un po’ burocraticamente Barbera d’Asti 2.0, ma l’idea da cui nasce è affascinante, una di quelle “Come mai nessuno ci aveva pensato prima?”. Ed è molto ambiziosa: si propone di realizzare una mappa sensoriale della Barbera d’Asti Docg ancorandola al territorio in cui si produce.

L’operazione, avviata dal Consorzio Barbera d’Asti e Vini del Monferrato, è finanziata dalla Regione Piemonte e realizzata dal Dipartimento di Scienze agrarie, forestali e alimentari dell’Università di Torino. Si tratta di individuare con uno studio scientifico il rapporto tra le caratteristiche pedoclimatiche dei differenti vigneti e i profili organolettici dei vini che se ne traggono. Analizzando un territorio vastissimo: 5.300 ettari sulle colline di 167 comuni delle province di Asti e Alessandria.

Da ogni collina, una Barbera diversa: analizzati 111 campioni

Sarà una carta di vocazionalità della Barbera, secondo Giorgio Ferrero, assessore all’agricoltura della regione. «Le nostre colline hanno caratteristiche diverse e insieme uniche, sulla base della composizione dei terreni e delle condizioni climatiche e ambientali», afferma Ferrero. La ricerca, spiega il professor Vincenzo Gerbi, responsabile scientifico del progetto, è articolata in due direzioni. Con la prima, dedicata all’analisi di 111 vini attualmente in commercio (82 Barbera d’Asti e 29 Barbera d’Asti Superiore), «si è voluto determinare come le diverse caratteristiche chimico-fisiche del vino, quali i caratteri cromatici e la composizione polifenolica, influenzino la qualità organolettica del vino».

 

Giorgio Ferrero, assessore all’agricoltura della regione

Giorgio Ferrero, assessore all’agricoltura della regione

 

La seconda fase del progetto

Nella seconda fase del progetto Barbera 2.0, continua Gerbi, «si sono studiate le relazioni tra le caratteristiche delle uve alla raccolta, provenienti da zone diverse, e i caratteri dei relativi vini prodotti. A tal fine, si sono analizzate in modo approfondito uve provenienti dai diversi areali di produzione della Barbera d’Asti, sottoponendole poi a una vinificazione controllata». A questo punto, secondo Gerbi, valutando i caratteri dei vini sperimentali e di quelli in commercio «sarà possibile analizzare le relazioni uve-vino e proporre ai vitivinicoltori un modello predittivo che, in base alle caratteristiche delle uve, possa decidere il target commerciale a cui destinare il futuro prodotto».

 

Vincenzo Gerbi, responsabile del progetto Barbera d’Asti 2.0

 

Siamo pronti per i cru di Barbera (forse)

Queste parole fanno sperare che per la prima volta si riescano a individuare ufficialmente anche in Italia dei cru classificabili, sia pure indirettamente, in una graduatoria qualitativa. La cautela e il linguaggio un po’ criptico con cui manifesta questo proposito il professor Gerbi, però, che conosce bene i produttori vinicoli piemontesi, lasciano intuire che non è un compito facile. La strada per arrivarci sarà lunga e travagliata.  «Ci aspettano anni di lavoro e impegno», conferma il presidente del Consorzio, Filippo Mobrici, quando affronta apertamente il tema: «I grandi vini del mondo sono caratterizzati da aree vocate, i cosiddetti cru. Anche la Barbera d’Asti ha intrapreso questa strada. Con l’avvio di questa ricerca scientifica, mai realizzata prima d’ora, si punta ad arrivare alla caratterizzazione delle aree produttive».

 

Filippo Mobrici, presidente del Consorzio di tutela Barbera, Vini d’Asti e del Monferrato

 

Manca il coraggio di differenziare i prezzi

Mobrici però si ferma lì. L’operazione Barbera d’Asti 2.0, afferma, deve far emergere le diverse tipicità produttive perché, secondo lui, «sono proprio le diversità di zona la vera ricchezza». Qualunque accenno alle differenze di prezzo dei vini che quelle diversità possono determinare è accuratamente evitato. Per un produttore italiano, effettivamente, non è facile ammettere che il proprio vino è di serie B perché il vigneto da cui nasce non può dare più di tanto. E invece è proprio grazie al fatto che in Francia questo concetto è stato accettato da tutti che i premier cru, diventati vini mito, sono stati le punte di diamante per la conquista dei mercati esteri. Chi oggi è contrario prima o poi sarà costretto ad arrendersi. E dovrà farsene una ragione, perché la classificazione qualitativa finisce sempre per trovare la strada per esplicitarsi.

 

Vigne del Nizza

 

Il Nizza non è già di fatto un premier cru?

La Barbera d’Asti, difatti, un premier cru ce l’ha già, anche se sembra non averlo perché ha un altro nome. È il Nizza, nato nel 2014, quando da sottozona della Barbera d’Asti Superiore (assieme a Tinella e Colli Astiani) è diventato una Docg a sé stante. Prodotto in 18 comuni, è gestito da un’associazione che riunisce 51 aziende, di cui 5 cooperative. La produzione è soltanto di 1.100.000 mila bottiglie all’anno, ma si distinguono per la vivace intraprendenza delle loro iniziative. Della carta vocazionale del Barbera, per esempio, non sanno che farsene: la mappa del Nizza se la sono già realizzata per conto proprio.

Nella foto di apertura: vigneti a Mombercelli, uno dei 18 comuni della Docg Nizza. © A. Leone

Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 5/2018. Se sei un abbonato digitale, puoi leggere e scaricare la rivista effettuando il login. Altrimenti puoi abbonarti o acquistare la rivista su store.civiltadelbere.com (l’ultimo numero è anche in edicola). Per info: store@civiltadelbere.com

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© Riproduzione riservata - 02/11/2018

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