Siamo piuttosto in una fase di assestamento e ridefinizione degli spazi di mercato. C’è la necessità di fare i conti con gli aumenti dei costi dei prodotti e dell’energia e con l’endemica carenza di personale qualificato. Ma anche con le aspettative della clientela top, quella che guarda alla qualità di cucina, cantina, servizio…
Con espressioni e in termini più o meno espliciti da qualche tempo ricorre fra gli addetti ai lavori la domanda: è davvero in crisi il cosiddetto fine dining, è irrimediabilmente segnato il futuro di quella che chiamiamo “alta ristorazione”? La risposta non può prescindere da un preliminare chiarimento su cosa si intenda per fine dining, perché un conto è ragionare sull’andamento dei locali che si caratterizzano per l’alta gamma di ambiente e accoglienza, altro è capire come vanno le cose per chi punta innanzitutto se non esclusivamente sulla qualità e l’identità della propria proposta gastronomica.
Focus, allora, sulla cucina. Per dire subito che, secondo chi scrive, non è proprio il caso di affermare che il fine dining in Italia sia in crisi.
Siamo in una fase di ridefinizione
È vero che il saldo fra nuove aperture e chiusure di locali è negativo, ma – come dice il presidente della Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi) Lino Stoppani – la contrazione del numero di imprese non è in sé un dato negativo se si traduce in un aggiornamento delle competenze e dei format degli esercizi.
Al di là di cifre e statistiche, da un confronto diretto con cuochi e ristoratori esce sì la descrizione di una fase di assestamento e di ridefinizione degli spazi di mercato, ma non di una crisi del fine dining laddove sia fondato sulla qualità dell’offerta gastronomica. In sostanza, nel mercato si stanno definendo le aree in cui si collocano i diversi ristoranti per rispondere a una domanda che è sempre più articolata e definita. E di conseguenza il ristoratore deve avere ben chiaro dove vuole piazzarsi.
La fascia top resiste
Con un giro di telefonate si trova la conferma che chi ha scelto di operare nella fascia top e, soprattutto, chi ha qualità ed energie per restarvi con risultati soddisfacenti non incontra problemi insormontabili, al di là della necessità di mantenere ogni giorno gli standard di prestazione perseguiti. Certo, l’impegno e la tensione non possono calare, perché da un lato si debbono fare i conti con gli aumenti dei costi dei prodotti e dell’energia e con l’endemica carenza di personale qualificato, e dall’altro lato con le aspettative della clientela top, quella che guarda alla qualità di cucina, cantina, servizio…
Cosa dicono i ristoratori
Basta scambiare poche battute con qualche ristoratore attento alla realtà e alle dinamiche del mercato per rendersi conto che non è il caso di parlare in termini generici di crisi del fine dining, ma anche del fatto che mai come oggi l’impresa ristorante ha bisogno dell’imprenditore almeno quanto del cuoco. E questo vale per tutti, a prescindere dalla dimensione e dalla zona in cui si lavora. Vale per Andrea Aprea, nel centro di Milano («Molto bene il 2024… ci misuriamo ogni giorno con clienti sempre più preparati e attenti, con palati sempre più consapevoli. Non puoi permetterti il minimo calo di tensione»), come per Riccardo Camanini, a Gardone Riviera (“Positivo il 2024. Non vedo ragione per affermare che il fine dining sia in crisi; anzi vedo anche un crescente interesse e una significativa presenza nella fascia fra i 25 e 35 anni, più bassa che in passato, che cerca e apprezza sia la qualità dei prodotti sia le tecniche di cucina»).
Le conclusioni
Per concludere, il quadro che emerge da un semplice giro d’orizzonte – senza la pretesa di essere un’analisi “scientifica” – è quello di: a) una ristorazione top in buona salute, super impegnata sia nel mantenere i livelli sia nel far quadrare i conti, b) una fascia media e medio-bassa che stenta a farcela economicamente, c) un’ampia gamma d’offerta di bassa caratura gastronomica e di varia connotazione etnica che prolifera e si espande. Ma da qui a sentenziare che il fine dining è in crisi…