Questione di stile

Questione di stile

Parliamo di stile. Del vino, naturalmente. In Italia non è un concetto molto frequentato, considerato piuttosto una banalità. Invece, è il punto di inizio e, probabilmente, di arrivo. Nella sua concezione più semplice, infatti, risponde alla domanda che qualsiasi consumatore potrebbe rivolgere al sommelier del ristorante, o all’amico esperto: “Che tipo di vino è?

Descrivere lo stile del vino

“Rosso”, è forse poco. “Ampio bouquet con note di tabacco Kentucky, tannini distesi e finale terroso”, un po’ troppo se non parliamo a un connoisseur. Però, si potrebbe dire qualcosa del corpo (ricco o snello) della percezione alcolica (caldo oppure fresco e leggero), di affinamento in legno (lungo invecchiamento in barrique, botte grande o solo acciaio), di intensità al naso, di sensazioni macroscopiche al palato (più ciliegia e frutti rossi o mora e mirtilli? Più vaniglia o cioccolato?).

La questione è più spinosa per le doc

Ma lo stile può essere un tema molto serio, che coinvolge l’identità di una denominazione. Qui la faccenda si fa spinosa e decisiva. Non si tratta più, per usare una metafora, di capire se per la serata ci vuole la cravatta o un abbigliamento casual; dobbiamo capire se ci sentiamo più gentleman di campagna o rapper. Ne va della nostra identità, se non è Carnevale. Il concetto prende quindi una dimensione profonda, se parliamo di territorio e denominazioni. Come si presentano al mondo un Amarone, un Barolo o un Brunello? In doppiopetto e barba hipster o in maglione con le mani sporche di terra?

Lo “stereotipo” orienta

Mettiamola così: se aspettassimo sulla banchina della stazione di Bombay un signore italiano, ansiosi di incontrarlo, sapremmo riconoscere il nostro Brunello? Sembra bizzarro, ma il nostro cervello ragiona più o meno così quando cerchiamo conforto in un vino e nel suo territorio. Muovendoci su alcuni parametri sensoriali di base, cerchiamo di incasellare i vini nel loro mondo, e godiamo nel riconoscerli, come ci sentiamo sollevati, su quella banchina, quando siamo sicuri d’aver identificato l’italiano nella variopinta umanità che scende dal treno: occhiali da sole, blazer blu, jeans e Timberland. E gesticola parlando al cellulare.

A rischio la riconoscibilità di un territorio

Sono stereotipi, d’accordo, ma servono, a giuste dosi, per ritrovarci nel mondo. Eppure, spesso, non riconosciamo i nostri grandi vini nelle batterie internazionali, pur essendo discreti degustatori. E qui il discorso di fa serissimo: quando partecipiamo a degustazioni orizzontali (cioè di una stessa annata), di alcune importanti denominazioni si trovano vini agli antipodi, dall’elegante e fine al muscoloso e aitante. È giusto? Sì e no.

Stile vs identità: cosa valorizzare?

Da un lato si comprende che il produttore desideri, lui sì, affermare il suo stile (o vendere più bottiglie, dando al mercato ciò che chiede in un momento storico) e vini tutti troppo simili sarebbero noiosi come se dal nostro treno scendesse un esercito di cloni. Un incubo. Dall’altro lato, una denominazione matura (prendiamone una con centinaia d’anni di storia, come Bordeaux) si presenta con una forte identità.

Diamo un nome alle differenze

Le differenze, semmai, si troveranno tra micro aree diverse e allora non parleremo più di Bordeaux, ma cercheremo le sottili peculiarità di Saint-Julien o Saint-Estèphe. Territori ampi e disomogenei come quelli di alcune nostre Docg non possono fare a meno, nel momento in cui cresce la qualità media e si affina la ricerca di un’espressione più precisa, di stringere l’obiettivo e dare un nome alle differenze, tenendo un filo comune di qualità, costituito da vitigni, rese, invecchiamenti minimi.

 

L’editoriale di Alessandro Torcoli è pubblicato su Civiltà del bere 1/2018. Per leggere la rivista acquistala sul nostro store (anche in digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com

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© Riproduzione riservata - 16/02/2018

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