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“Meteo-enologia” (II): per Mariani la CO2 non va demonizzata

“Meteo-enologia” (II): per Mariani la CO2 non va demonizzata

Come anticipato ieri nel post Cambia il clima e la vigna si adegua, ci occupiamo del rapporto tra le variazioni ambientali (legate in particolare all’aumento delle temperature) e la viticoltura. Per farlo, abbiamo contattato due esperti del calibro dell’agrometeorologo Luigi Mariani e dell’agronomo Attilio Scienza, entrambi docenti dell’Università degli Studi di Milano. Di seguito, la prima parte dell’intervista realizzata dal giornalista Fabrizio Penna al professor Mariani. Domani sarà on line la seconda parte e nei giorni seguenti l’intervento del dottor Scienza.

Un vigneto innevato durante i mesi invernali

– Professor Mariani, il clima sta davvero cambiando? E se sì, come e perché?
«A livello planetario la Terra è stata interessata da numerosi mutamenti climatici, alcuni assai remoti e altri più recenti. Per esempio da 100 anni prima della nascita di Cristo e per i successivi 400 si è verificata una fase piuttosto calda detta “optimum romano”, seguita da alcuni secoli di maggior freddo e un ritorno al caldo con “l’optimum medioevale” che è iniziato attorno al Mille ed è proseguito fino al 1350 circa, a cui è seguito un nuovo periodo freddo fino al 1850; successivamente si è verificata una crescita delle temperature fino al 1880, a cui ha fatto seguito un momento stazionario o di lieve decrescita fino al 1910. Fino al 1950 si è assistito a un incremento dei valori, mentre nei 30 anni seguenti si è registrata un’ulteriore diminuzione, seguita da una nuova crescita fino al 1998. Da quell’anno le temperature a livello globale si sono nuovamente stabilizzate e in alcune aree dl pianeta hanno addirittura iniziato a diminuire, anche se da noi sta avvenendo il contrario. È curioso notare che le fasi calde in passato sono state chiamate “optimum” perché rappresentavano per le popolazioni che le affrontavano un’opportunità di vita migliore, caratterizzata da un accesso facilitato alle risorse alimentari e una conseguente diminuzione delle carestie. Per esempio, durante la fase calda medioevale la viticoltura è stata portata dai monaci fin sulle Alpi a 1200-1300 metri di altitudine e i paesaggi subalpini sono stati costellati dagli ulivi».

– A che cosa sono dovuti i repentini cambiamenti climatici in corso negli ultimi anni? La teoria dei gas serra legati all’aumento delle emissioni d’anidride carbonica ha reali fondamenti scientifici?
«Non è escluso che c’entri anche l’anidride carbonica, ma non è certamente l’unica causa. La macchina del clima è molto complessa e non è possibile che l’aumento della concentrazione di gas serra interagisca in modo immediato innescando cambiamenti duraturi. La dimostrazione viene dal fatto che i gas serra sono aumentati costantemente dal 1750, ma la temperatura da allora non ha continuato a salire in modo uniforme. Sui mutamenti climatici possono influire ad esempio anche fattori cosmici, come l’attività solare che nel XX secolo è stata su livelli altissimi, esattamente come è avvenuto circa 8 mila anni fa, quando la Terra si è trovata proprio nel mezzo del grande optimum post glaciale (la fase più calda dalla fine della glaciazione a oggi): ovviamente questo dato fa riflettere molti studiosi. Occorre altresì dire che per trovare una concentrazione di CO2 elevata come quella attuale bisogna andare indietro di centinaia di migliaia di anni».

Una pianta rovinata dalla grandine

– Ma l’innalzamento della presenza di anidride carbonica è poi così dannoso per l’uomo in generale, e per l’agricoltura in particolare?
«Non dobbiamo assolutamente far passare il concetto che la CO2 sia un inquinante da demonizzare, perché essa è “cibo per le piante” utilizzata di giorno per la fotosintesi clorofilliana. Se noi la eliminassimo e ritornassimo al suo livello preindustriale di 280 parti per milione del 1750 avremmo un calo della produzione agricola compreso tra il 20 e il 40 per cento. Oggi le piante rendono di più rispetto al passato non solo perché sono state introdotte nuove varietà e tecniche di coltivazione, ma anche perché c’è più CO2 nell’ambiente, quindi se attuassimo politiche per una sua drastica diminuzione, come vagheggiato da qualche scienziato che vorrebbe pomparla dall’atmosfera per poi metterla sotto pressione e stoccarla sotto terra a grandi profondità, assisteremmo a un sensibile calo in agricoltura e a una conseguente crisi alimentare di portata globale.
Comunque senza far le cose troppo difficili se proprio si volesse lavorare per una riduzione degli attuali livelli di CO2 basterebbe incentivare la coltivazione di piante in grado di utilizzarla: per esempio un ettaro di mais ne assorbe 20 tonnellate circa; la vite meno perché non tutta la superficie di coltivazione è coperta dalle foglie visto che gli attuali sistemi di allevamento prevedono i filari, all’interno dei quali una parte della radiazione solare finisce sul terreno. Una cosa che pochi sanno è che dal 1910 a oggi in Italia sono raddoppiati i boschi, perché con l’inurbamento sono stati progressivamente abbandonati i terreni più difficili da coltivare lasciando libero spazio alla macchia spontanea che è una grande consumatrice di CO2».

 

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© Riproduzione riservata - 16/10/2012

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