Breve e faziosa storia del vino (da Noé ad Al Bano)

Breve e faziosa storia del vino (da Noé ad Al Bano)

Questa “breve e faziosa storia del vino” è tratta da In vino veritas, il grande romanzo del vino raccontato da Alessandro Torcoli. Un libro per neofiti ed esperti, ricco di fatti curiosi e informazioni imprescindibili, edito da Longanesi.

Uno dei momenti più belli della mia storia professionale risale a cinque anni fa. Non fu il conferimento di un premio giornalistico né quando diventai direttore di Civiltà del bere, ma una lezione sul vino che tenni a un pubblico speciale: la classe di mia figlia Elisa, terza elementare a Milano. La maestra Giovanna avrebbe portato i suoi alunni in campagna a vedere la vendemmia (brava maestra, dato che qui in città molti bambini non hanno mai visto una gallina, figuriamoci una vigna) e il papà esperto fu chiamato come volontario a spiegare il vino. Tensione alle stelle. Da dove partire? Niente degustazioni, ovviamente. Dunque partimmo da Noè. E così farò adesso. (Spoiler sulla lezione: andò talmente bene che la settimana successiva fui inondato da disegni dei bambini che avevano riprodotto alcuni passaggi del mio discorso.

Da Noè a Carducci, passando per Omero

Ragazzi, dico a tutti voi, ci rendiamo conto che il vino è un pilastro della nostra civiltà? Non è solo una bevanda, è un simbolo, è nutrimento culturale. Dunque, apriamo la Bibbia: Noè salva l’umanità e tutte le creature con la sua mitica arca. Qual è il suo primo gesto appena mette piede sulla terra ferma, alla fine del diluvio universale? Pianta una vite, si fa il vino e d’accordo… s’embriaga! Quei puritani dei figli subito a coprirlo, a nasconderlo, che vergogna di padre. Ma sfido chiunque! Dopo tanta pressione, paura, sofferenza… Non era neanche più abituato, suvvia, quindi gli è andato subito alla testa. E questo è l’Antico Testamento. Vogliamo parlare di quello Nuovo? Be’, non sprecherei neppure parole: il vino è il sangue di Cristo. E pensiamo alla rilevanza di questa bevanda nei primi poemi, quelli omerici (“il mare color del vino”), Dioniso, Bacco fino al Carducci: “ma per le vie del borgo, dal ribollir de’ tini, va l’aspro odor de i vini l’anime a rallegrar”. La mia lezione alle elementari si chiuse così, una volta spiegato con parole semplici quello che ho scritto nei capitoli 2 e 3, abbiamo recitato in coro San Martino.
Ora, poeti, storici e studiosi hanno riempito grattacieli di carta su tutti gli aspetti dell’enologia, compreso Leonardo, Galileo fino a Edmondo De Amicis (l’autore di Cuore, scrisse un gustoso libello sugli effetti psicologici del vino) e nel Novecento Mario Soldati. Per brevità, e affetto, la mia breve storia del vino partirà da lui.

Raccontare il vino al grande pubblico, tra stile chic e pop

Regista e scrittore, Soldati era il Camilleri degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Popolarissimo, raffinato narratore che sapeva parlare al grande pubblico, insomma chic ma anche pop. Suo il primo film trasmesso dalla RAI (Le miserie del signor Travet, 3 gennaio 1954, uscito nelle sale cinematografiche nel 1945), Soldati raccontò per primo il cibo e il vino al grande pubblico, con l’inchiesta  Viaggio lungo la valle del Po alla ricerca dei cibi genuini (1956) che si rivelerà una delle trasmissioni più fortunate della neonata televisione italiana. Nel 1969 uscirà il primo volume del suo reportage Vino al vino. Viaggio alla ricerca dei vini genuini, che raccoglieva il suo pellegrinaggio per le cantine d’Italia, cominciato per una serie di articoli commissionati dalla rivista femminile Grazia: ancora oggi un punto di riferimento per chiunque voglia studiare la storia del vino, e scriverne. I successivi volumi uscirono nel 1971 e nel 1976 (quest’ultimo, raccoglieva invece articoli scritti per il settimanale Epoca). Un altro autore da ricordare (e rileggere), meno popolare ma grandissimo, fu Paolo Monelli. Suo il Ghiottone errante, pubblicato da Treves nel 1935, è ancora oggi un capolavoro di scrittura applicata alla gastronomia.
Tornando però a Soldati, lui inaugurò un filone e uno stile di scrittura e di racconto televisivo il cui modello possiamo riscontrare anche oggi, pensando alle varie trasmissioni Linea Verde o Melaverde che siano, con l’esperto che entra nelle botteghe o nelle vigne, in cantina o in macelleria e descrivendo i prodotti dialoga con i produttori, intrecciando edonismo, tradizioni, geografie umane.

Una storia di famiglia

In particolare, il mio profondo affetto per Soldati origina da un’avventurosa storia di famiglia: il mio bisnonno Mario Gladulich, capitano di lungo corso, aveva accolto il giovane scrittore sul piroscafo da New York a Trieste; un mese di traversata creava amicizie profonde.  Soldati ne scrisse nel racconto “La carta del cielo”, contenuto nella raccolta La Messa dei villeggianti, e nel salone della sua villa a Tellaro, borgo ligure che fu il suo buen retiro, campeggiava sulla parete la carta che dà il titolo al racconto, uno disegno del capitano grazie al quale Soldati aveva imparato a riconoscere le principali costellazioni. La “figlia del capitano”, cioè la mia prozia Rita Gladulich, mantenne il rapporto di amicizia con Mario, condividendo con lui la grande passione per lo scopone scientifico. Trascorrevo a Tellaro le vacanze estive, nella casa di mio nonno Pino Khail, e per me, bambino e adolescente, Casa Soldati era un luogo leggendario, verso il quale correvo appena possibile attratto dal mito dell’artista. E finivo direttamente nel suo studio, dove Soldati mi accoglieva con acqua e amarena, prima, e con il profumo dei suoi inseparabili sigari, dopo. Così, nel tempo, maturò la passione sia per la letteratura, sia per il toscano. Purtroppo, però, non ho mai bevuto insieme a lui un bicchiere di Carema, che egli descrisse con tratti di lirismo nel suo Vino al vino. Soldati ci lasciò prima che anche io potessi appassionarmi alla materia.

Veronelli, il Gianni Brera del vino italiano

Negli anni in cui Soldati imperversava, emergeva anche un altro personaggio, un filosofo anarchico, figlio di borghesissimi bergamaschi: Luigi Veronelli, divenuto poi “l’esperto di vino” per antonomasia. Il modello di narrazione non era distante da quello di Soldati, ma Veronelli seppe andare più a fondo nella materia e a essa dedicò l’esistenza. Conosceva palmo a palmo i cru, i vigneti più importanti d’Italia, e ammoniva i cultori della materia – giustamente – a “camminare le vigne”, l’unico modo per capire a fondo il vino. Erano gli anni Settanta e Veronelli introdusse anche un linguaggio molto particolare, misto di arcaismi e tecnicismi reinventati. Potremmo definirlo il “Gianni Brera” del vino. Curiosa la sua battaglia affinché si usassero parole italiane e non ci si abbassasse a scimmiottare i francesi: caratello al posto di barrique, vigna al posto di cru. A Veronelli, giustamente, è dedicata una via di Milano in zona Garibaldi, e tra i suoi tanti meriti c’è anche quello di aver contribuito alla nascita di alcune etichette oggi mitiche, simboliche del “vino di pregio”, come Sassicaia e Tignanello, per fare due esempi di fama planetaria.

La nascita di Civiltà del bere

E sempre negli anni Settanta Pino Khail, mio nonno, fondava la prima rivista enologica italiana destinata alle edicole e al grande pubblico: la già ricordata Civiltà del bere. In un certo senso la rivista nacque per reazione alla poetica veronelliana del “piccolo è bello”, tematica affrontata dall’economista tedesco Ernst Friedrich Schumacher nel 1973 ma calata nel mondo del vino dal nostro vate lombardo. In realtà, il tempo appiana le cose, e anche Luigi Veronelli, stemperò il suo ardore anti-industriale. Anzi, negli ultimi anni della sua vita conviveva serenamente con tanti imprenditori.

L’Italia, un Paese dalla radici contadine profonde

Pochi anni fa noi di Civiltà del bere pubblicammo un fumetto nel quale Soldati, Veronelli e Khail, pur partendo da visioni differenti, commentavano dall’alto dei cieli in un comune sconcerto l’attualità dell’enologia italiana. Certamente oggi è tutto cambiato da allora, oggi che il vino è glamour per essere davvero alla moda non ci si può esimere dall’inserire nel proprio curriculum un corso da sommelier. Ma le differenze sono profonde, e non solo di superficie. L’Italia è un Paese dalle profonde radici contadine, il vino come per molte popolazioni europee, di area mediterranea, era un tempo un alimento vero e proprio, parte integrante della dieta quotidiana perché apportava calorie ai contadini che faticavano nei campi. Nel secondo dopoguerra il consumo era superiore ai 100 litri pro capite , mentre oggi è crollato attorno ai 30. Questo significa che, dal punto di vista della sociologia dei consumi, il vino è passato dalla posizione di alimento necessario a bevanda edonistica, un prodotto scelto perché soddisfa da vari punti di vista (psicologico, culturale, sensoriale). Il ritornello tra gli addetti ai lavori, alle conferenze e nei simposi, è sempre «si beve meno ma si beve meglio». E in alcuni casi è vero.

Com’è cambiato il nostro modo di pensare il vino

Certamente oggi siamo disposti a spendere anche cifre importanti per il vino: molti accettano che il prezzo di una bottiglia decente si collochi tra i 5 e i 10 euro. Anzi, i connoisseur sanno bene che per trovare qualcosa di emozionante bisogna spostarsi nella fascia di prezzo tra i 10 e i 20 euro e sono disposti a spendere anche molto di più per assaggiare una zolla delle Langhe. Quante volte ci domandano come faccia a costare anche più di 100 euro una bottiglia di vino. In ogni caso oggi molte persone cercano vini Doc o Docg, oppure le grandi marche, da Antinori a Zenato, passando per case vinicole microscopiche ma eccellenti.

In vino veritas
di Alessandro Torcoli
illustrazioni di Paolo d’Altan
Longanesi, 2019
176 pagine, 20 euro

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© Riproduzione riservata - 24/01/2020

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