
Vini dealcolati: tre questioni su cui ragionare con Mike Veseth

Nella sua seguitissima rubrica, The Wine Economist, il critico americano ha analizzato il fenomeno dei no alcol. Per farlo, è passato dalla teoria alla pratica: dalle riflessioni tecniche all’assaggio di alcune etichette, testandone piacevolezza e somiglianza ai vini tradizionali. Con il benestare dell’autore, abbiamo tradotto integralmente il suo stimolante approfondimento (qui la versione originale).
Sue ed io continuiamo a esplorare il mondo dei vini no alcol (o alcol free). I dealcolati sono una delle poche categorie di vino (se di vino si tratta – vedi sotto) in crescita, quindi ha senso vedere cosa sta succedendo. Tanto più che anche la birra e gli spirits analcolici sono in piena espansione. Ecco il nostro report, che esamina i vini dealcolati da tre punti di vista.
On trade, che aspetto ha un’enoteca no alcol?
È diventato facile ordinare birra analcolica in un bar o in un ristorante – c’è quasi sempre almeno un’opzione disponibile – e i cocktail analcolici (anche detti mocktail) sono onnipresenti. Ma il vino dealcolato rimane difficile da trovare (almeno per noi) nei locali. Mi chiedo come sarebbe un’enoteca no alcol e chi ci andrebbe? Mi sono imbattuto nella risposta a questa domanda qualche settimana fa, mentre facevo ricerche su French Bloom, la linea di vini dealcolati di alta gamma che ha attirato l’attenzione di LVMH, il colosso francese del lusso. French Bloom è in distribuzione limitata in questa fase e sul sito web c’è una mappa mondiale che ti mostra i punti di vendita on e off trade. Mi ha sorpreso scoprire che uno dei relativamente pochi venditori statunitensi si trovava a pochi chilometri dalla sede internazionale di The Wine Economist a Tacoma, Washington.
Soulberry Coffee House and Dry Speakeasy si trova a metà strada tra il campus dell’Università di Washington/Tacoma e il Tacoma Dome district. È uno spazio caldo e invitante che mi ricorda un incrocio tra i pub familiari che conoscevamo quando vivevamo in Inghilterra e l’originale concetto di “terzo spazio” di Starbucks che non è né casa né luogo di lavoro. Soulberry si definisce “uno spazio sicuro per tutte le età dopo l’orario di lavoro” e questa descrizione mi sembra piuttosto accurata. La proprietaria di Soulberry, Terri Quintana-Jessen, dice di essere una torrefattrice di caffè, ma io e Sue abbiamo subito notato quanto parlasse di comunità e relazioni. Il caffè unisce le persone, e questo deve essere uno dei motivi del suo interesse. Anche il vino unisce le persone, ma l’alcol può allontanarle.
Poiché il vino dealcolato è dealcolato, venderlo e servirlo non comporta gli oneri e le normative che devono essere presi in considerazione per le bevande alcoliche. Terri si è documentata su vino, liquori e birra analcolica e ben presto la sua caffetteria è diventata anche una bottiglieria e un “dry speakeasy” con una selezione a rotazione di quasi 40 cocktail no alcol. Il French Bloom è popolare come base per i Mimosa della domenica e il French 75s no alcol.
Soulberry non è un caso isolato. I dry wine and spirits bar stanno spuntando come i bar di vini naturali qualche anno fa. C’è un’enoteca no alcol nella vostra città? Forse sì e, come me, non lo sapevate.
I vini dealcolati sono davvero dei vini?
Il vino no alcol è davvero vino? Da precedenti rubriche so che molti lettori ritengono che non possa dirsi vino in assenza di alcol. Alcuni studi hanno persino dimostrato che alcuni consumatori basano le loro decisioni di acquisto sulla quantità di alcol presente all’interno della bottiglia (più è meglio!). È certamente vero che la fermentazione (che produce alcol) è necessaria per trasformare il succo d’uva in vino. Ma, una volta rimosso l’alcol, il prodotto che ne risulta è ancora vino?
Sebbene le opinioni possano variare, l’uso del termine “vino” è definito dalle normative e quindi differisce nelle diverse giurisdizioni. Alcuni produttori sono propensi a chiamare vino i loro prodotti dealcolati perché vedono un’opportunità di mercato. Con le vendite di prodotti a gradazione piena stagnanti o in calo, ha senso conquistare una quota del crescente mercato delle bevande no alcol. Altri, invece, ritengono importante difendere il termine “vino” dall’essere svilito o diluito, il che potrebbe essere un terreno scivoloso.
È interessante osservare l’evoluzione di questo dibattito in Italia, dove è illegale apporre il nome “vino” a tutto ciò che ha una gradazione alcolica inferiore all’8% vol. Come ha riportato Wein.plus qualche settimana fa, il ministero dell’Agricoltura italiano ha recentemente rivisto i regolamenti per consentire ai vini dealcolati di utilizzare il termine “vino”, ma non per i vini a denominazione protetta. Quindi si può avere un vino rosso no alcol della Toscana, ma non un Chianti no alcol perché il Chianti è una denominazione protetta. Questo spiega perché il vino dealcolato di Mionetto che abbiamo trovato da Total Wine era etichettato come “sparkling non-alcoholic wine” e non come “Prosecco no alcol”. Naturalmente, il brand Mionetto è così strettamente legato al Prosecco che l’associazione mentale è quasi impossibile da evitare.
Prima della nuova sentenza, i produttori di vino italiani potevano chiamare i loro prodotti dealcolati “vino” solo ai fini dell’esportazione. In patria l’uso del termine “vino” era riservato al vino alcolico. La normativa sul vino dealcolato è in continua evoluzione, con diversi interessi che spingono per liberalizzare le regole e altri che si oppongono. Ma la risposta alla domanda – è davvero vino? – spetta in ultima analisi a voi deciderla.
Detto questo, l’Oiv ha recentemente evidenziato la sua attività sulla dealcolazione del vino, che risale a una risoluzione del 2012. Il comunicato stampa dell’8 gennaio 2025 spiega che, adottata nel 2012 in occasione del 35° Congresso Mondiale della Vigna e del Vino a Izmir, in Turchia, la risoluzione OIV-OENO 394A-2012 “Dealcolazione dei vini” contiene prescrizioni per ottenere prodotti vitivinicoli con un contenuto alcolico ridotto o basso attraverso l’evaporazione parziale sottovuoto, tecniche a membrana e distillazione. Specifica inoltre che questo processo non deve essere effettuato su vini con difetti organolettici e deve essere supervisionato da un enologo o da un tecnico specializzato. Il quadro di riferimento dell’Oiv per la dealcolazione del vino fornisce ai produttori gli strumenti per innovare e al tempo stesso navigare nella complessità delle tecniche e del mercato. Questa progressione sostiene l’obiettivo di qualità e autenticità del settore in un panorama di consumatori in continua evoluzione.
Il vino no alcol può superare la “prova del secondo bicchiere”?
Sue e io abbiamo provato i vini no alcol e li abbiamo sottoposti alla “prova del secondo bicchiere”. Chiediamo che i vini dealcolati (1) ci ricordino i vini che rappresentano e (2) siano sufficientemente buoni da farci accettare un secondo bicchiere. Le nostre prime ricerche sono state piene di fallimenti. O i vini non ci ricordavano la versione alcolica o semplicemente non erano di nostro gusto. Spesso erano piatti, privi del frutto o dell’aroma andati persi nel processo di dealcolazione.
Lo spumante Mionetto di cui sopra, ad esempio, ha ottenuto un buon risultato nel “Second Glass Test”. Ci ha ricordato il Prosecco in generale (avrebbe potuto avere un po’ più di frutta e acidità), ma era molto piacevole da bere e aveva un prezzo che rientrava nella gamma dei normali spumanti Mionetto. Abbiamo finito la bottiglia a cena. Le bollicine degli spumanti no alcol derivano dalla carbonatazione, non dal processo di fermentazione, e in generale li abbiamo trovati più riusciti dei vini dealcolati fermi.
Di recente Sue e io abbiamo testato i vini no alcol di Chavin Zéro, un’azienda vinicola francese attiva dal 2010. I vini sono stati introdotti nel mercato statunitense dall’importatore Kobrand. Questi dealcolati sono stati creati per risolvere lo stesso problema di French Bloom: cosa deve bere una donna che ama il vino in gravidanza?
Pierre Chavin produce vini in Francia, tra cui una linea di no alcol chiamata Chavin Zèro. Ci siamo concentrati su due vini fermi di Chavin Zéro, un rosato e un Sauvignon blanc. Il Sauvignon blanc è arrivato per primo e Sue ha dichiarato che è probabilmente il miglior vino fermo no alcol che abbiamo provato finora, anche se non corrisponde alla nostra idea di Sauvignon blanc. (A dire il vero, non esiste una definizione universale del sapore e del profumo di un Sauvignon blanc). Tuttavia, è stato molto piacevole da bere, aveva un frutto e una sensazione in bocca migliori della media, probabilmente perché contiene il 12% di succo d’uva (mosto d’uva concentrato). Lo aggiungeremo alla nostra lista.
Ci ha incuriosito il Chavin Zèro rosato, di colore rosa pallido, contraddistinto da una bottiglia accattivante e da un’interessante blend di uve Cinsault, Syrah e Grenache. Fra quelli provati finora è stato probabilmente il vino più interessante e quello che ci ha più disorientato. Era sicuramente buono – nessun problema con il secondo bicchiere. Aveva gli aromi, il frutto e la consistenza in bocca che stavamo cercando ma che raramente abbiamo trovato. Però non aveva il sapore di nessun rosato che abbiamo mai bevuto. Le note di degustazione della Cantina segnalavano aromi di frutta gialla e fiori bianchi. Non si vede spesso la “frutta gialla” nelle descrizioni. Forse il sapore era di prugna gialla? Non siamo riusciti a decidere. Sue ha detto che era più simile al vino, e probabilmente era il migliore in termini complessivi, ma non ci ricordava un rosato o un altro vino in particolare.
20 anni indietro sulla birra?
Alla fine abbiamo aperto la bottiglia di spumante French Bloom che abbiamo acquistato da Soulberry. Come abbiamo riferito qualche settimana fa, questo vino ha ricevuto molta attenzione dalla stampa a causa del legame con la famiglia Taittinger, dell’omonima Maison di Champagne, e di un recente investimento molto pubblicizzato da parte del gruppo LVMH. Terri di Soulberry ha detto che i suoi clienti gli hanno dato dei voti alti.
Abbiamo condiviso la nostra bottiglia di questa cuvée di Chardonnay e un saldo di Pinot nero con due amici enologi. Sue e io abbiamo trovato il French Bloom asciutto e beverino, ma privo di corpo, frutta e aromi che cerchiamo ma che spesso non troviamo nei vini dealcolati. Sarebbe una buona base per i cocktail a base di vino dealcolato che servono da Soulberrry.
Penso che saremmo stati più impressionati dal French Bloom quando abbiamo iniziato la nostra ricerca, ma ora ci aspettiamo di più, soprattutto considerando il prezzo premium di oltre 40 dollari.
La categoria dei vini, delle birre e degli alcolici no alcol è in crescita, anche se da un livello di partenza basso, e c’è molta ricerca in corso. Un recente articolo dell’Economist illustra i cambiamenti del mercato e suggerisce che, mentre il vino dealcolato potrebbe essere indietro di 20 anni rispetto alla categoria della birra analcolica, che ha avuto molto più successo, potrebbero non essere necessari 20 anni per recuperare. Incrociamo le dita e speriamo che i consumatori (e i produttori) di vino del Nord America trovino presto i loro rispettivi punti di forza.
Foto di apertura: © M. Eneqvist – Unsplash
Tag: the wine economist, Vini dealcolati© Riproduzione riservata - 29/01/2025
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