Val di Noto, Pachino. È l’alba di un nuovo rosso
Oggi il nome di Pachino, in Val di Noto, richiama i pomodori ciliegino, che per circa vent’anni hanno fatto la fortuna degli agricoltori di quest’angolo estremo di Sicilia. Ma in passato, e per almeno un secolo, questo nome è stato legato al vino.
Il Rosso Pachino, così era conosciuto in Italia, in Francia e perfino in Russia, altro non era che un vino da uve Nero d’Avola ad alta gradazione alcolica che è stato di grande “aiuto”, tra gli anni Settanta – Ottanta dell’Ottocento fino agli anni Ottanta del Novecento, per molti vini toscani, piemontesi e francesi. Un vero “serbatoio” (come quello analogo pugliese) di gradazione e di colore per rossi anemici altrui. Gli impianti vitati ad alberello ricoprivano a quel tempo buona parte delle campagne del triangolo Noto-Pachino-Rosolini, punteggiati dai tradizionali palmenti, costruzioni dove avveniva la vinificazione delle uve.
L’epoca d’oro della vite
Un vero e proprio spettacolo che però è andato quasi scomparendo una trentina d’anni fa lasciando spazio alle meno belle (seppur redditizie) serre per la coltivazione di pomodori, meloni e altri generi ortofrutticoli. «Pachino e le zone circostanti della Val di Noto», spiega il sindaco Roberto Bruno, «hanno conosciuto tre momenti di grande presenza viticola: poco dopo la metà dell’Ottocento, prima cioè dell’arrivo della fillossera da noi, poi il primo decennio del Novecento con alti e bassi, e infine dagli anni Cinquanta fino agli Ottanta del secolo scorso. Era una viticoltura orientata alla quantità, remunerativa e volta all’esportazione del prodotto sfuso.
Tutto iniziò col palmento di Antonio Starrabba di Rudinì
Nessuno all’epoca pensava di commercializzare il vino in bottiglia, anche se proprio sul finire dell’Ottocento c’era stato un tentativo di innovazione tecnologica da parte del marchese Antonio Starrabba di Rudinì (primo ministro del governo italiano in quegli anni Novanta) con la costruzione nei dintorni di Marzamemi di un grande stabilimento di vinificazione con vasche refrigerate, locali di stoccaggio e due condotte sopraelevate per il trasferimento del vino sfuso sulle navi dirette a Livorno e a Genova. Oggi quel palmento è diventato un museo che racconta la storia del vino di Pachino».
Val di Noto, dalla viticoltura al ciliegino
Il declino della vitivinicoltura in Val di Noto, con Pachino che ha sempre svolto il ruolo di protagonista (sebbene gran parte degli impianti vitati si trovino nel comune di Noto), avviene per almeno due motivi: gli incentivi europei all’estirpazione dovuti all’eccesso di produzione e lo scandalo del metanolo (1986) che ebbe come conseguenza la restrizione dell’uso di vini prodotti al di fuori delle zone a denominazione di origine. Da qui l’estirpazione pressoché totale dei vigneti e l’inizio del fenomeno-pomodoro (prima il tipo costoluto e poi il ciliegino, quest’ultimo coltivato soprattutto sulla fascia costiera in zona Porto Palo).
Il desiderio di rinascita arriva dal versante occidentale
Oggi per fortuna, grazie alla notorietà e all’apprezzamento dei vini Nero d’Avola, la vitivinicoltura di Pachino e dintorni è tornata in auge, per iniziativa soprattutto di imprenditori esterni, anche se agli inizi degli anni Ottanta c’era stato un tentativo della Cantina Elorina di coinvolgere i pochi viticoltori locali rimasti. I primi pionieri a scommettere in quest’area, riconosciuta come la vera culla del Nero d’Avola, sono stati comunque due siciliani della parte occidentale: Antonino Di Marco, enologo marsalese, un passato alle dipendenze di grandi aziende, e Diego Planeta, che non ha bisogno di presentazioni.
Planeta e Terre di Noto i primi a investire
«L’imprenditoria pachinese non ha mai investito nel territorio», dice Di Marco, che con la sua azienda Terre di Noto, fondata nel 1989, possiede 30 ettari di vigna ma produce solo 30 mila bottiglie di vino, tra cui gli ottimi Nichea (Nero d’Avola 100% Noto Dop) e Lapalicca (Moscato Passito di Noto Dop). Quanto a Planeta, l’investimento in Val di Noto risale al 1998 e conta oggi una cinquantina di ettari in contrada Buonivini. Qui l’azienda produce etichette come il Santa Cecilia, Nero d’Avola di punta, e il Passito di Noto, vini che maturano nella suggestiva “cantina invisibile”, sintesi tra rispetto del territorio, esigenze tecniche e soluzioni architettoniche.
Baglio di Pianetto in contrada Baroni
Dopo di loro il territorio Pachino-Noto ha finito per attrarre l’attenzione di altri importanti imprenditori non siciliani: tra questi, il conte Paolo Marzotto con il suo Baglio di Pianetto, che ha scelto la contrada Baroni per produrre i rossi dell’azienda. Oggi nei 40 ettari vitati coltiva, oltre a Nero d’Avola e Moscato di Noto, anche Frappato e Syrah. Top di gamma è Cembali da uve Nero d’Avola allevate ad alberello, che esce in commercio dopo un affinamento di circa cinque anni e mezzo.
Non solo Nero d’Avola per Feudo Maccari
Ecco poi il toscano Antonio Moretti, proprietario in Valdarno di Tenuta Sette Ponti, che nel 2001 acquista i primi terreni per dar vita a Feudo Maccari. «Ero in vacanza in barca a Marzamemi», ci dice Moretti, «quando amici mi hanno fatto visitare il retroterra pachinese, e subito mi è piaciuto l’ambiente perché ho capito che lì si potevano produrre non solo grandi rossi ma anche ottimi bianchi a base Grillo». Oggi l’azienda ha 60 ettari e produce sei vini che hanno nel Saia (Nero d’Avola 100%) e nel Mahâris (Syrah 100%) i top di gamma. Quanto al Grillo, Feudo Maccari è stata la prima azienda in zona a crederci, e oggi altri ne hanno seguito l’esempio. Rifarebbe l’investimento? «Assolutamente sì, perché il sole, l’atmosfera, la natura e il suolo generoso che si ritrovano qui ti fanno innamorare. È una terra che se la sai lavorare bene non ti tradisce».
Tag: alberello, Pachino, Sicilia, Val di Noto, vino sicilianoTratto da Civiltà del bere 01/2017. Per continuare a leggere l’articolo acquista il numero nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com.
Buona lettura!
© Riproduzione riservata - 14/03/2017