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Tra vino e territorio totale identificazione. Il nostro passato enologico

Tra vino e territorio totale identificazione. Il nostro passato enologico

Sant’Agostino nel suo sermone 126, si rammarica che gli uomini non ribadiscano e ricordino che il miracolo di Cana si riproduce continuamente: “Ciò che era acqua è diventato vino: gli uomini hanno visto e sono rimasti attoniti; cosa altro si produce a partire dalla pioggia, passando per il ceppo della vite?”. Perché inizio proprio dal filosofo di Ippona che visse e operò a cavallo fra il 300 e 400, per riflettere sulla storia vitivinicola della nostra Europa? Perché egli è al centro di una straordinaria rivoluzione del pensiero e non manca di una modernissima intuizione anche sul vino, talché mi piace collocarlo all’inizio di un cammino che trova così una nobile radice comune. Ma ascoltiamo ancora il padre Dante: “Guarda il calor del sole che si fa vino”. E allora, come ricercatore in viticoltura ed essendo nel Duemila resto affascinato. Sono, infatti, perfettamente individuati i due elementi fondamentali alla base delle reazioni biologiche che si svolgono nella pianta: acqua ed energia. Anche Galileo Galilei, nel 1600, farà questa riflessione e dirà: “Il vino è un composto di umore e luce”. L’acqua, però, è solo quella che viene dal terreno, in modo che il vino non debba contenerne altra, ed è rivestita di una sacralità che Agostino riconduce a Cana; l’energia (la luce) è quella che viene dal sole, unica fonte che possediamo sulla terra. Si può obiettare che tutte le piante vivano di questi processi, ma per esse, quale santo, filosofo, poeta, scienziato si è espresso in questo modo? La radice allora, non solo è profonda, ma anche sacra come non mai e così sarà sempre vissuta nel nostro continente.

Il vino è il luogo dove nasce. Lo testimoniano gli ostraka sulle anfore funerarie rinvenute nella tomba di Ramses II

FIN DALL’INIZIO, UN RAPPORTO D’AMORE – La storia, però, inizia molto più lontano, tanto che dobbiamo fare un grande balzo indietro, per recuperare altri principi fondamentali tramandati e condivisi. Da quando l’uomo ha incontrato la vite ha avuto un rapporto particolare con questa pianta che possiamo solo interpretare con l’archeologia, proprio per capire perché e come solo la vite Euroasiatica, Vitis vinifera silvestris, fra le circa 100 specie che vivono e crescono selvatiche, sia l’origine del 99 per cento del vino che oggi produciamo in tutto il mondo (McGovern, L’archeologo e l’uva). Ciò rappresenta un fondamento basilare e comune della storia del vino, perché ogni sfumatura di sapore, colore, carattere deriva dalla ricca e straordinaria variabilità di quest’unica specie, via via addomesticata in diversi centri, mentre le altre evidentemente non interagivano positivamente con la sensibilità degli uomini. Questo è un primo legame che ci accomuna e che distingue il vino. Infatti, l’essere umano è stato l’interfaccia per la scelta dei diversi biotipi che hanno arricchito i vini quando si cominciavano a produrre, comprendere ed apprezzare iniziando nella regione sirio-anatolica di nordovest nell’età del rame; nelle zone greche, nell’Italia meridionale nella media età del bronzo; nell’Italia centrale etrusca e romana nell’età del ferro; nella penisola iberica sudorientale nel 500 a.C.; nelle zone padane all’inizio della nostra era. Ebbene, in ogni momento il vino è stato sempre identificato con il suo luogo di origine e qui voglio sottolinearlo un’altra importante caratteristica comune. Lo ricordano gli ostraka (cocci di vasellame rotto o schegge di pietra usati per scrivere al posto del papiro, troppo costoso) sulle anfore di vino della tomba di Ramses II che identificano le diverse località di produzione. Poi, i testi ugaritici (dalla città di Ugarit, nell’attuale Siria) del II millennio a.C. che parlano dei vigneti e dei vini dell’antica Biblo (città fenicia sulla costa del Libano), dei quali più tardi Archestrato di Gela, poeta-gastronomo, dirà: “Lodo il vino di Biblo della sacra Fenicia, ma certamente non lo paragono a quello di Lesbo”, innescando già un conflitto tra prodotti di località diverse. Omero, nell’Odissea, nell’episodio di Ulisse che ubriaca il Ciclope non parlerà di vino, ma del vino di Ismaros e siamo nell’età del bronzo. Gli atleti vincitori delle antiche Olimpiadi non verranno premiati con del vino, ma con il vino di Crotone… e potrei continuare per arrivare a una raffinata esasperazione di questo concetto nei romani. Plinio (23-79 d.C.) nel libro XIV della Naturalis historia, ricorda l’agro Falerno e i suoi vini e, sentite, come li identifica: “Tre sono i tipi di questo vino: austero, dolce, leggero; e si suddivide ancora così, quello che si produce sulla sommità dei colli si chiama Caucino, Faustiniano quello che nasce a mezza costa, Falerno quello che nasce nella zona più bassa”. Da questi presupposti è nata di conseguenza tutta l’attenzione che verrà portata in ogni parte d’Europa alle zone di produzione finché questo concetto sarà codificato con leggi. Una premessa la troviamo nella Firenze dei Medici nel 1714. La Congregazione preposta ai controlli codificò la delimitazione territoriale delle aree di produzione per il Chianti (Greve, Radda, Gaiole e Castellina) e per il Pomino (la bassa Valdisieve, Pomino, la Consuma fino al corso dell’Arno) e così i vini nati al di fuori di questi territori non potevano utilizzare le denominazioni ricordate. Più tardi il problema verrà portato all’attenzione internazionale dalla Francia e definito con la Convenzione di Madrid del 1899, nella quale verrà sancito il principio di reprimere “la falsa indicazione di provenienza”. Di seguito avremo le leggi che ci accomunano su questo consolidato e comune principio: la zona di coltivazione dell’uva come caposaldo per l’identificazione del vino.

"Il vino è un composto di umore e luce" diceva Galileo Galilei. L'acqua è quella che viene dal terreno e la luce quella del sole, i due elementi che servono alle barbatelle per diventare piante prolifere

TANTE SPECIE QUANTI I GRANELLI DI SABBIA – Un altro pilastro della nostra viticoltura è rappresentato dalla specie di vite utilizzata. Ho accennato all’origine e al diffondersi di una straordinaria variabilità in quella che verrà classificata come Vitis Vinifera sativa e anche al perché ciò non sia avvenuto per le altre specie. Le scelte continue dell’uomo su incroci spontanei e sulle mutazioni hanno generato un’infinità di biotipi. Basti pensare che già Virgilio, nelle Georgiche, diceva che sono talmente tante da non poterle neanche contare e “che se qualcuno saperlo pur vuole, vada costui nel deserto libico, e conti i granelli di sabbia che il vento tormenta”. Anche la biologia molecolare oggi ci dimostra che i vitigni sono quasi sempre il risultato di incroci spontanei avvenuti in epoche diverse e in varie località e, qualche volta, della propagazione di mutazioni gemmarie evidenti.
Non dobbiamo quindi stupirci se già il filosofo greco Democrito (460 circa a.C.-360 circa a.C.) parlava di differenti tipi di vite, ma soprattutto se lo scrittore romano Columella (4-70 d.C.) indicava con precisione e distingueva molte varietà, tanto che non considerava l’aminnea un’unica specie, ma la suddivideva in più varianti. Dell’Arcelata maggiore arrivava a dire “a multis Argitis falso estimata“ (da molti falsamente ritenuta Argite, cioè di Argo), a dimostrazione addirittura dell’importanza di non confonderle tra loro (proprio come oggi).
Intanto la storia della vite e della sua diffusione procedeva con i Romani; un cammino sicuro con le legioni di Cesare che la porteranno in varie zone d’Europa, imprimendo un senso comune al suo sviluppo. È interessante ricordare lo storico Vito A. Sirago che, a proposito della grande importanza del vino per Roma, fa riflettere sulle osservazioni di Cesare sulle popolazioni galliche; annotava infatti “non hanno vino” con tanta insistenza da far pensare che la guerra gallica fosse stata scatenata anche per accaparrarsi altre piazze di vendita di questo prodotto. Ciò portò alle sviluppo di vini pregiati in molte parti dell’Impero, tanto che sotto Augusto quelli di Spagna avevano ampie richieste.

Palazzo Vecchio a Firenze. Nel capoluogo toscano, nel 1714, la Congregazione preposta ai controlli codificò per la prima volta la delimitazione territoriale delle aree di produzione per il Chianti e per il Pomino. Un segnale della grande attenzione che l'Europa assegna da sempre alle aree d'origine

NEL CORSO DEL MEDIOEVO – Con i cosiddetti secoli bui di inizio Medioevo (dal 400 al Mille) le invasioni di Visigoti, Unni e Franchi spopolarono le campagne, e la vite, bisognevole di molte cure e molta manodopera, ne risentì pesantemente. Sopravvisse in qualche castello, nei monasteri e conventi per la preziosa opera dei Benedettini e Cistercensi. Inoltre, le conquiste saracene in Spagna e il conseguente proibizionismo dettero un grave colpo a questa coltivazione cui, sempre i Cistercensi, offrirono qualche riparo. La vite in alcune zone francesi era addirittura tornata allo stato selvatico e l’introgressione genetica con nuovi vitigni portò a biotipi distinti e particolari: tipi che si ritrovano ancora oggi nelle vecchie popolazioni del Midì di Cinsault, Clairette, Aspiran…e che si considerano indigeni, (autoctoni), in opposizione a quelli che venivano importati da Spagna e Italia (Grenache, Mourvédre, Carignan, Ugni Blanc…). Nella penisola italica, intanto, si diffondevano ugualmente vitigni autoctoni e d’importazione e, nel Trecento, il bolognese Pier de’ Crescenzi nella sua Opus ruralium commodorum illustrava Trebiane, Garganique, Albane e Pignole ancora oggi coltivate con questi nomi, mentre al sud Federico II (lo stupor mundi) ci riporta alla presenza di straordinari vitigni come Fiano e Greco. Vitigni importati ve ne erano certamente molti altri che Greci ed Etruschi avevano diffuso molti, molti secoli prima. Nella penisola iberica la vite trovava qualche collocazione nella Asturie, ma notevole in Navarra (dove addirittura era più diffusa di oggi), nella Rioja, in Aragona, Catalogna (dove dal 1100 al 1300 il vigneto prosperò per volere della Corona di Aragona e Catalogna), in Castiglia (nell’Ottocento i vigneti della vallata del Doro erano stati quasi totalmente distrutti dagli Arabi e dove la rinascita avvenne anche per l’apertura del camino de Santiago, in Valença (dove si distinguevano e prosperavano Moscatel e Malvasia), nell’Andalusia con Jerez che era già un importante centro vinicolo. Si può riportare a quest’epoca il diffondersi di varietà quali Airén, Albillo, Grenache, Pedro Ximenes… In Germania verdeggiava lungo il Reno il Riesling, la varietà ancora oggi principe della zona, identificata con questo nome nel Quattrocento: è, infatti, del 13 marzo 1435 un inventario del Conte Giovanni IV di Katzenelnbogen di Russelheim nel quale è scritto “22 scellini per marze di Riesling…”. La sua origine, però, è molto più antica. Recentemente analisi di Dna hanno indicato i suoi genitori nel Gouais bianco (conosciuto in Germania come Waisser Heunisch e molto coltivato nel Medioevo) e in un incrocio spontaneo fra una vite selvatica e il Traminer. Cosa ricordare ancora? Certamente la II Crociata di inizio 1200, quando baroni delle diverse parti di Europa guidati dai veneziani, conquistata Costantinopoli, al ritorno, circumnavigando il Peloponneso, si fermarono a Monemvasia e raccolsero tralci di viti lì coltivate e le diffusero nei loro Paesi. Si chiameranno Malvasie come quelle già portate in epoche pregresse, per dar luogo a una famiglia di varietà che arricchiscono l’Europa e che ancora oggi stiamo cercando di catalogare. Nei diversi Paesi si andavano formando i caratteri di viticolture diverse, basate però sugli stessi principi di selezione e valorizzazione delle aree di coltivazione e dei vitigni che ancora oggi sono presenti a dare prestigio alle produzioni.

La Valle del Reno è sempre stata la patria tedesca del Riesling. Se ne trovano tracce fin dal Quattrocento

IL MOMENTO DELLA SEPARAZIONE FRANCESE – Nel periodo specifico si consolidava quella che noi chiameremo viticoltura borghese e, in Francia, viticulture seigneuriale. Ora le strade fra noi e Francia divergeranno significativamente per il realizzarsi di alcuni aspetti con diverso ordine temporale. Fra il 1400 e 1500, in Francia vi fu un’intensificazione dei commerci verso il Nord dell’Europa, commerci già iniziati da quando Eleonora d’Aquitania, dopo che il suo matrimonio con il re di Francia fu annullato, sposò nel 1152 Enrico il Plantageneta, futuro re di Inghilterra. Si espandevano allora i vitigni di qualità: nelle regioni renane il Riesling, in quelle dell’Arbois e Jura il Savagnin, nella Borgogna il Pinot noir, nell’Orléans il Melon e il Muscat gennetin che era forse lo Chardonnay, conosciuto anche come Melon musqué e, probabilmente, il Sauvignon e Cabernet Franc nel bordolese. Nello stesso periodo, però, l’influenza dei commercianti olandesi portò anche a produrre vini mediocri sostenuti da vitigni di scarsa qualità (Folle blanche, Colombard…). Fatto accompagnato da una democratizzazione dei consumi e il consolidarsi, in alcune aree, di una viticulture populaire. In Italia la qualità dei prodotti, legata a vitigni nobili, rimaneva solida nelle diverse aree, come magistralmente dimostra la documentazione lasciata da Andrea Bacci nella sua Storia naturale dei vini edita nel 1595. Tra i mille esempi, lasciatemi ricordare che in Conegliano una Reformazione del Magnifico Consiglio, datata 20 gennaio 1542 affermava: “Di quanta importanza sia il vender li vini di monte di questo territorio, quali per la maggior parte sono allevati et comprati da tedeschi, con utile universale di tutte queste terre”. Nel 1600, inoltre, Fra Leandro Alberti nella Descrittione di tutta l’Italia, lodava Treviso per i “perfettissimi vini” che venivano dal “nobile Castello di Conegliano …molto civile, ricco et pieno di popolo et abbondante delle cose per il vivere dell’huomo”. Vedete la grande considerazione del nostro prodotto?

Un vigneto in Gironda. Tra il 1400 e il 1500 la Francia intensificò i commerci con il Nord Europa portando lassù i suoi vini di qualità: Riesling, Savagnin, Pinot nero, Melon e Muscat

La Francia fra il Seicento e il Settecento vide l’affermarsi delle sue zone viticole più famose, con vini di grandissimo successo anche internazionale: gli Champagne, i Bordeaux, i Sauternes, i Borgogna, mentre in Italia cominciava in tutte le aree viticole una sistematica e triste decadenza, con l’affermarsi di una viticoltura contadina che, per cause sociali più che comprensibili, praticamente azzerava la reputazione dei vini. Le testimonianze sono anche in questo caso mille. Basti pensare, per esempio, che a Firenze i vini più importanti erano quelli corsi, le Malvasie e i Greci di oltre mare, come nelle altre regioni. A Venezia i giovani patrizi venivano introdotti nella vita pubblica con un brindisi di Malvasia importata, mentre i vini del retroterra agricolo venivano chiamati “acquarole”. I vini bevuti al pranzo di nozze di Ser Alvise Contarini K con la ND Caterina Civran nel 1755 erano: Tokai, Borgogna, Sciampagna, Graves, Canarie, Reno, Malaga di Spagna, Saragozza,  Moscato di Cipro e poi solo Rosazzo bianco e Picolit. I giudizi che venivano dagli stranieri e dagli stessi studiosi italiani erano impietosi e questo nonostante tutti constatassero le felici condizioni naturali del nostro paese atte a produrre “i migliori vini d’Europa”. Con il ricordato sfasamento temporale nel 1861, con l’unità del Paese, uno dei primi ministri dell’Agricoltura del Regno, Stefano Castagnola, pose le basi per una revisione delle coltivazioni e della fase di trasformazione, in modo che gli elementi fondamentali che ho rammentato, zone di produzione e vitigni di qualità, potessero esprimersi per portare i vini italiani nella posizione che loro competeva e compete.

Il Colosseo. Per la Roma antica il vino fu fondamentale; a proposito delle popolazioni galliche, Cesare annotava: "Non hanno vino"

UN SOLO FILO ROSSO LEGA LE SCELTE VINICOLE – L’excursus storico è stato forzatamente veloce, ma avete notato come è ben percepibile il filo rosso che lega le impostazioni e le scelte nella storia vitivinicola dei Paesi europei, con basi antiche ma sempre attuali e che sempre si ripropongono come irrinunciabili proprio perché il vino è una bevanda unica, ricca di molti significati incancellabili. La sacralità di cui abbiamo visto. L’essere specchio della verità. Anacreonte diceva a cavallo tra il 500 e 400 a.C.: “Il bronzo è lo specchio del volto, il vino quello della mente”. Shakespeare e Rabelais, duemila anni dopo: “Come è vero che nel vino c’è la verità, ti dirò tutto, senza segreti” e “nel vino è celata la verità”. L’essere nutrimento per lo spirito. Pindaro nel 400 a.C. scriveva: “Il vino eleva l’anima e i pensieri e le inquietudini si allontanano dal cuore dell’uomo”. Ancora Shakespeare: “Ora viene la dolcezza della sera. Riempite la coppa e passatela in tondo”. Goethe: “Ma poiché ormai tutti/ sediamo qui riuniti / che il calice risuoni, direi, coi versi del poeta”. De Amicis: “Il vino aggiunge un sorriso all’amicizia ed una scintilla all’amore”. Cesare Pavese: “Sei la terra e la vigna. /Un acceso silenzio / brucerà la campagna / come i falò la sera”.
Desidero ora chiudere con il pensiero di Roger Scruton, uno dei più influenti filosofi al mondo: “Io ho imparato da Michelangelo il pathos dell’amore materno e la divinità della sofferenza; ho imparato da Mozart la speranza che trasforma la tristezza più cupa in gioia; ho imparato da Dostoevskij il perdono che purifica l’anima. Questi doni della comprensione mi sono stati dati dall’arte; ma quello che ho imparato dal vino è emerso dal mio intimo, il vino è stato il catalizzatore, anche se non la causa di ciò che ho appreso…”. Pensate ora che questa meravigliosa bevanda, pena la sua distruzione, potrebbe essere mai omologata e banalizzata?

Antonio Calò

Presidente dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino

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© Riproduzione riservata - 26/09/2013

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