Food Food Giovanni Caldara

Sua maestà il piccione, la sfida di ogni chef

Sua maestà il piccione, la sfida di ogni chef

Il piccione è banco di prova, biglietto da visita nonché sfida al limite del virtuosismo per ogni chef che si rispetti. È un piatto ormai sinonimo di cucina gourmet, ma guai a sbagliarne la cottura: le sue carni sono delicatissime.

Conviene cominciare da quel vero e proprio “monumento storico” che è il magnifico ristorante parigino Le Grand Vefour; in puro stile Direttorio, coi suoi stucchi, le specchiere, i tendaggi e le boiserie ha ospitato clienti del calibro di Napoleone e Victor Hugo e rappresenta oggi la cornice perfetta per gustare un piccione davvero indimenticabile. Lo chef savoiardo Guy Martin ha voluto infatti rendere onore al suo predecessore – Raymond Oliver, tra gli anni ’50 e ’60 lo chef più famoso di Francia – consacrando al rango di classico quel Piccione Principe Ranieri III (in carta a ben 128 euro a porzione) in cui l’omaggio al monarca monegasco s’accompagna al tartufo – “grande come un pugno” – e al fegato grasso con cui il nostro volatile è stato cotto, delicatamente, in una casseruola.

Da sempre un banco di prova

E del resto sua maestà il piccione è banco di prova, biglietto da visita nonché sfida al limite del virtuosismo per ogni chef che si rispetti. Lo era già ai tempi della sontuosa versione “à la mode du Café de Paris” (ristorante tre stelle fino al 1955) fino al recente debutto d’un figlio d’arte di grandissimo talento come Mathieu Pacaud (il padre Bernard dirige quel tempio sublime che è L’Ambroisie di place des Vosges) e che per il suo ristorante Histoires (subito due stelle Michelin, poi chiuso) ha cucinato un superbo piccione impregnato delle vinacce di Romanée-Conti.

Matteo Torretta, chef del ristorante Tracce di Serravalle Scrivia (Alessandria), con il suo piccione

Piccione, sinonimo di cucina gourmet

Matteo Torretta, chef del ristorante Tracce nell’idilliaca cornice di Villa La Bollina a Serravalle Scrivia (Alessandria) ne offre una versione con lollipop di coscia al bacon, petto poché e uva spina (che il patron e sommelier Ivan Famanni propone in abbinamento a un Merlot di Movia, vino di medio corpo che sa dialogare tanto con la salsa che con la cottura del piccione). Per noi fa il punto della questione: «È un piatto che non può mai mancare nei ristoranti gastronomici perché è sinonimo di cucina gourmet. Ed è preparazione difficile per l’incredibile delicatezza delle sue carni. Basta un minuto in più nella cottura che s’affaccia, disturbando, quel sapore ferroso e fegatoso».

Già nel ricettario dell’Artusi

Tra le 790 ricette che compongono l’imprescindibile bibbia della gastronomia italiana che è La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene, Pellegrino Artusi, di cui quest’anno ricorre il bicentenario della nascita, dedica al piccione svariate ricette: arrostito nella versione “a sorpresa” con tartufi e fegatini, ma anche in umido con i piselli («la miglior morte del piccione» dichiara), con prosciutto, uova, animelle o ancora nei timballi dimostrando come il piccione fosse onnipresente nelle cucine domestiche ottocentesche, soprattutto dell’Italia centrale.

È fondamentale il benessere dell’animale

Nel cuore della Toscana, nel Valdarno superiore, Laura Peri alleva i suoi celebri polli che hanno a disposizione quasi otto ettari di terreno per crescere e muoversi in libertà con recinzioni nel bosco che si trova a 450 metri d’altezza. Anche i piccioni, allevati secondo un disciplinare da lei ideato, si trasformano con i fichi e il Vin Santo in pietanze prelibate sotto le mani fatate di Gaetano Trovato del ristorante Arnolfo a Colle di Val D’Elsa (Siena), 2 stelle Michelin.

La versione dal sapore ancestrale

Ma eccellente è anche quella coscia di piccione (che è la parte meno pregiata) che lo chef Mattia Baroni, del ristorante La Fuga di Sarentino (Bolzano), ha reidratato per due settimane con un garum di piccione (ottenuto dalle carcasse, altro scarto) e poi affumicata alla ricerca di un sapore ancestrale e che, abbinata a un vino austriaco biodinamico, triple A, come l’Hochäcker (Blaufränkisch in purezza) di Weingut Weninger, rappresenta quella nuova frontiera gourmet che è intelligente e rispettosa.

Foto di apertura: il piccione con susine, cannella e senape di Arnolfo

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© Riproduzione riservata - 11/10/2020

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