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Focus portainnesti: il piede americano va innovato

Focus portainnesti: il piede americano va innovato

C’è voluto mezzo secolo per aggirare (più che risolvere) il problema della fillossera. Arrivata in Europa dagli Stati Uniti, il celebre quanto temuto parassita causò una grave crisi della viticoltura dal 1863 in Francia. I primi focolai d’infestazione furono alimentati anche dall’imprudenza degli agronomi. E poi la calamità si estese in tutta Europa con grande rapidità.

I vigneti sopravvissuti alla fillossera

Malgrado le misure imposte dagli Stati per controllare l’importazione di materiale di propagazione, e la creazione nel 1869 della Società regionale di viticoltura di Lione, promotrice di convegni dedicati al problema, l’afide ha via via infestato i vigneti del globo. Furono risparmiati solo quelli su terreni sabbiosi (inadatti al parassita), di alta montagna (per il clima rigido) e le piante americane, autoimmuni. Unico caso a parte il Cile, le cui peculiari condizioni geo-pedoclimatiche hanno impedito l’arrivo dell’insetto.

La soluzione arrivò dagli Usa

Dopo mezzo secolo, il problema è stato arginato ricorrendo all’innesto della vite europea sulla radice americana, a sostituirne l’originario apparato radicale. La soluzione ha di fatto avviato il moderno vivaismo, che poi si occuperà soprattutto di selezione clonale. Una pratica in precedenza pressoché inesistente e le cui funzioni erano empiricamente svolte dai contadini-viticoltori, mediante semi casuali selezioni massali.

Il piede americano è una soluzione superata

Dopo la ricostituzione dei vigneti, questo devastatore ha acquisito un’importanza secondaria, sebbene oggi quasi tutti i vigneti del mondo – a parte le citate eccezioni – siano costituiti da piante innestate. Così, una volta marginalizzato il problema della fillossera, per decenni non si sono più studiati nuovi portainnesti, concentrandosi sui problemi inerenti le parti aeree della pianta.

Allo studio nuovi portainnesti

Da diversi anni si è tornati sul tema, per le evoluzioni del clima, i cambiamenti in viticoltura (per ridurre fertilizzanti e irrigazione a favore della sostenibilità ambientale) e alcune componenti dei suoli (salini e calcarei) mal sopportate dai portinnesti “storici”. Vista l’inadeguatezza di molti di questi ultimi, la conseguente necessità è di crearne di nuovi, più consoni.

Attilio Scienza spiega perché

Il professor Attilio Scienza dell’Università di Milano ci ha fornito un aggiornato quadro della situazione. «La costituzione di un nuovo vigneto pone di fronte a diverse opzioni che condizioneranno la redditività dell’impianto. Tra queste, la scelta del portainnesto più adatto a vitigno e pedoclima. La viticoltura mondiale si fonda su pochi portainnesti, spesso obsoleti rispetto alle esigenze della moderna viticoltura. Soprattutto in termini di resistenza/tolleranza agli stress abiotici (come quelli derivanti dai sopracitati suoli salini e calcarei, ndr)».

Usiamo ancora selezioni di fine Ottocento

«I primi portainnesti furono selezionati in Francia a inizio Ottocento, utilizzando incroci di vitis riparia e vitis berlandieri (tra i più noti il 101-14 e il 420A)», prosegue Scienza. «Fra il 1879 e il 1894 venne creata la maggior parte dei portainnesti oggi usati, resistenti alla fillossera e abbastanza tolleranti alla clorosi ferrica. Ma poi, negli ultimi settant’anni, l’attività di breeding si è fermata e si è sviluppata piuttosto un’intensa attività di selezione clonale per creare varietà esenti da virus».

Quattro nuovi genotipi in sperimentazione

Quali sono i portainnesti più utilizzati in Italia? Scienza risponde così: «Il K5BB e SO4 nel centro-nord; 1103P e 140Ru nel centro-sud. Entrambi derivano da incroci fra pochi genitori, a scapito della loro variabilità genetica. Oggi invece dovremmo disporre di nuovi portainnesti, più capaci di adattarsi alle nuove variabili ambientali». A seguito di ciò, negli anni Ottanta il dipartimento di Produzione vegetale dell’Università di Milano ha avviato un progetto teso a costituire nuovi portainnesti con la tecnica dell’incrocio ricorrente, utilizzando vitis berlandieri. «C’è molto materiale ancora in attesa di valutazione, dal quale sono stati selezionati, con opportuni confronti e comparazioni fra vari portinnesti, vitigni e terroir, quattro genotipi, in sperimentazione dal 2006: M1, M2, M3 e M4».

 

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© Riproduzione riservata - 25/09/2017

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