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L’enologo Franco Giacosa si racconta: “Cambio vita e penso a me”

L’enologo Franco Giacosa si racconta: “Cambio vita e penso a me”

Appena compiuti i 65 anni, ha lasciato la direzione delle Tenute della Casa Vinicola Zonin. Una decisione serena, presa all’apice del successo e sostenuta da importanti scelte personali che, ci confida, l’hanno trasformato. I moltissimi ricordi e i suoi progetti nell’ambito dell’omeodinamica.

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È il 1966 e Franco Giacosa festeggia alla presenza di un ospite vip, Bobby Solo, il conseguimento del diploma di enotecnico ad Alba (Cuneo)

È della classe 1946, Franco Giacosa, e perciò il 31 luglio, compiuti 65 anni, ha lasciato la direzione tecnica delle aziende della Casa Vinicola Zonin ed è andato in pensione. Gianni Zonin gli aveva proposto di restare altri cinque anni ma lui, pur lusingato dell’offerta, non l’ha accettata, così com’è deciso a respingere tutte le richieste di consulenza che a un enologo della sua fama prevedibilmente arriveranno. «Il lavoro mi ha dato tante gratificazioni», ammette, «ma con l’impegno professionale ho chiuso». Per quale motivo, chiediamo. «Perché sono cambiato io. Quattro anni fa sono diventato vegetariano. Una scelta non soltanto nutrizionale: è un segno esteriore di ciò ch’è avvenuto dentro di me, che non è facile da spiegare ma che comporta un nuovo stile di vita. Ecco perché adesso intendo dare un giro di boa alla mia attività: per adeguarla al cambiamento interiore».
Serio, posato, razionale, Giacosa non è un tipo che ami i colpi di testa, eppure non è la prima volta che sorprende tutti con una mossa imprevedibile: si può anzi dire che ha chiuso la sua brillante carriera di enologo allo stesso modo in cui l’aveva iniziata, manifestando uno spirito d’avventura che nessuno a prima vista gli attribuirebbe.

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Giacosa con Ezio Rivella e Robert Mondavi in Umbria, a Torgiano

Era il 1968, e fino allora aveva vissuto seguendo un percorso dettato dai condizionamenti e dalle opportunità che gli offriva l’ambiente: nato tra i vigneti in una famiglia contadina di Alba, era prevedibile che frequentasse la Scuola enologica della sua città ed era scontato che, una volta ottenuto il diploma di enotecnico, facesse la sua gavetta, per un paio di vendemmie, in una cooperativa dell’Astigiano. Quel che non era prevedibile né scontato era che quell’estate, sconsigliato da tutti, accettasse la proposta di fare un mese di ferie lavorative per avviare una piccola Cantina in Sicilia, in provincia di Enna. Evidentemente aveva deciso di procurarsele da solo, le sorprese che fino a quel momento gli erano mancate, affrontando un’esperienza inedita e inoltrandosi in un territorio professionalmente inesplorato.
«Andai in Sicilia per restarci un mese e invece ci sono rimasto 29 anni», racconta. A trattenerlo era stata fin dal primo momento la sensazione che lì avrebbe potuto fare qualcosa di veramente nuovo ed esaltante: vinificando le uve siciliane, aveva percepito che in qualche caso esisteva in esse un potenziale di qualità ancora inespresso. Perché non avrebbe potuto essere proprio lui a estrarre quella pepita nascosta?

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La prima presentazione a Tokyo dei vini da lui ideati negli anni alla Duca di Salaparuta

Il primo passo importante verso quell’obiettivo lo fece nel 1974, quando ebbe l’opportunità di entrare a far parte dell’équipe tecnica della Duca di Salaparuta, a Casteldaccia (Palermo): un passo che gli permise di collaborare per parecchi anni con un conterraneo famoso come Ezio Rivella. Ma la grande occasione per realizzare il suo progetto scattò all’inizio degli anni Ottanta, quando, nominato responsabile tecnico dell’azienda, gli fu chiesto di tentare la produzione di qualche nuovo vino di grande personalità, in grado di misurarsi con i mostri sacri dell’enologia mondiale.
Era un compito da far tremare le vene e i polsi, dal momento che la vitivinicoltura siciliana era ritenuta avere scarsa vocazione per i vini d’alta gamma. La tentazione di andare sul sicuro e impiantare vitigni nobili francesi, Cabernet Sauvignon, Pinot noir, Chardonnay o Sauvignon blanc, era forte, ma Giacosa aveva in testa tutto un altro piano. La Duca di Salaparuta non possedeva vigneti: i suoi vini, a cominciare dal famoso Corvo, li produceva acquistando le uve dai vignaioli dell’isola: chiedere loro la creazione di nuovi impianti con barbatelle importate dal nord era pretendere troppo. E allora perché non esplorare invece il patrimonio viticolo locale, perché non scoprire quali erano le vigne privilegiate e accertare se le uve autoctone possedevano le caratteristiche per creare vini con una marcia in più?
Da buon piemontese, testardo ma prudente, Giacosa voleva però essere certo di non commettere errori. E perciò chiese agli amministratori dell’azienda, e lo ottenne, di ampliare lo staff di tecnici e di realizzare un reparto sperimentale nel quale fosse possibile effettuare, all’epoca della vendemmia, decine di microvinificazioni separate, in modo da selezionare le migliori tra centinaia di partite d’uva di diverse varietà e provenienza, sperimentando altresì differenti metodi di vinificazione e di affinamento.

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L’enologo impegnato nell’avvio di un modernissimo impianto di vinificazione nel 1991

Di microvinificazioni Giacosa ne fece addirittura 120 all’anno per cinque anni, ed è grazie a questo metodo forse unico, certamente originale, che ottenne, da uve di Nero d’Avola, un rosso di eccezionale carattere come il Duca Enrico e da uve di Inzolia un bianco fresco e gentile ma di solide spalle come il Bianca di Valguarnera. Certo, per tutti e due fu poi necessario individuare e mettere a punto le metodologie più adatte, soprattutto per quanto concerneva l’affinamento in barrique, al fine di esaltarne le qualità. «Ma per far questo non era più necessario inventare niente di nuovo», dice.
Il prestigio internazionale del Duca Enrico e del Bianca di Valguarnera, cui si aggiunse il successo commerciale di un altro bianco che aveva creato, il Glicine, consentirono alla Duca di Salaparuta di raggiungere risultati economici inaspettati. “Il presidente della società di Casteldaccia Sergio Vizzini”, riferiva il 30 giugno 1997 il quotidiano la Repubblica, “ha affermato di aver chiuso il 1996 con un utile di gestione di 3,5 miliardi di lire (erano stati 1,6 nel 1995), un fatturato di 40 miliardi (36 nell’anno precedente), di cui il 40% realizzato sui mercati esteri, e ha annunciato che questo sarà sicuramente un anno boom: nei primi mesi del 1997 gli incrementi sono stati di circa il 40% mensili, con punte del 58% a maggio”.
Quel successo era stato favorito da una proprietà aziendale che, appagata dal buon andamento di una gestione ch’era sempre stata in grado di autofinanziare le proprie iniziative, aveva praticamente dato carta bianca ad amministratori e tecnici. E il fatto più straordinario è che si trattava di una proprietà pubblica: a possedere il 99% della Duca di Salaparuta era infatti l’Espi, Ente siciliano per la promozione industriale, emanazione della Regione Sicilia. Ma quel fortunato equilibrio stava per spezzarsi: “In Sicilia le banche sono sull’orlo del collasso”, segnalava il quotidiano in quello stesso articolo, “la Regione è piena di debiti e gli enti regionali sono stati posti in liquidazione”. C’era una sola azienda dell’Espi che poteva essere venduta senza difficoltà, selezionando anzi il miglior offerente, ed era la Duca di Salaparuta. “Nelle scorse settimane”, informava infatti il giornale, “il presidente dell’assemblea regionale siciliana Nicola Cristaldi ha reso nota l’esistenza di una proposta d’acquisto proveniente dalla banca americana Citybank, che si aggirerebbe sui 150 miliardi di lire”.

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Comincia l’era Zonin. Nel 1997 Giacosa è in Sicilia con il cavaliere nelle terre che diventeranno il Feudo Principi di Butera

A quel punto, una cosa sola era certa: si stava per aprire una stagione di logorante incertezza, in attesa di una cessione che appariva ormai inevitabile ma conoscendo la lentezza decisionale degli enti pubblici chissà quando sarebbe avvenuta (difatti ebbe luogo nel 2001, quattro anni dopo). Per Franco Giacosa si presentava invece un’interessante opportunità: quella di uscir di scena proprio nel momento di maggior gloria, in cui alla Duca di Salaparuta veniva riconosciuto un ruolo di protagonista grazie ai vini che lui aveva realizzato.
A offrirgli la possibilità di concretizzarla, quell’opportunità, fu Gianni Zonin, presidente del più importante gruppo vinicolo italiano di proprietà privata, che con perspicace tempismo gli propose proprio allora di assumere la direzione tecnica delle sue aziende. Per un enologo che mirava alto come Giacosa, era una bella sfida, quella di misurarsi con le uve e i vini di tutte le tenute aziendali della famiglia Zonin, che andavano dal Monferrato all’Oltrepò Pavese, da Gambellara ad Aquileia, dal Chianti Classico a San Gimignano per arrivare addirittura a Barboursville, in Virginia, negli Stati Uniti.

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Barboursville, in Virginia, il sogno americano della Zonin

Quando decise di accettare, però, scoprì che quell’anno avrebbe dovuto impegnarsi in una doppia vendemmia: l’ultima del suo impegno presso la Duca di Salaparuta e contemporaneamente la prima in un’azienda che Zonin aveva appena acquistato in Sicilia, nella zona di Riesi: il Feudo Principi di Butera. Quella proprietà gliel’aveva segnalata proprio lui, quando Zonin gli aveva detto che intendeva produrre vini nell’isola e stava cercando vigneti a grande vocazione. «Non dimenticherò mai il modo in cui decise l’acquisto», racconta Giacosa. «Salì in auto accompagnato dal mediatore e ispezionò la tenuta osservandola dal finestrino mentre percorreva le strade che la circondavano. Una volta completato il giro, non scese neppure dalla macchina e disse: la compro, andiamo dal notaio a firmare il rogito. Aveva un buon motivo, intendeva cogliere tutti di sorpresa per non dare il tempo a nessuno di maggiorare il prezzo, ma io, abituato ai tempi lunghi degli enti pubblici, fui sbalordito dalla rapidità di quella decisione».
Il suo incarico di direttore tecnico faceva parte della strategia che Zonin aveva elaborato affinché i vini delle sue aziende fossero percepiti come prodotti da un marchio di qualità, non più da una firma eminentemente commerciale. «Aveva già capito, in anticipo sugli altri, come si stavano evolvendo le esigenze dei consumatori», ricorda Giacosa. «Però, essendo io un enologo, probabilmente si aspettava che il mio intervento si sviluppasse subito in cantina e desse quindi risultati in tempi brevi. Temo quindi di avergli dato una delusione quando gli dissi, dopo aver analizzato tutte le Tenute, che la cosa più urgente da fare, se si mirava alla qualità, era rinnovare gran parte dei vigneti».
Coltivati quasi tutti con impianto a Casarsa, come era stato suggerito dagli esperti nei decenni precedenti, avevano consentito di ottenere consistenti riduzioni di costi meccanizzando quasi tutte le operazioni agricole, ma la densità troppo rada dei ceppi e la coltre troppo frondosa di copertura dei grappoli non favorivano la perfetta maturazione delle uve. Non dev’essere stato facile, per Giacosa, realizzare la svolta, culturale più che colturale, da lui patrocinata: i vigneti di Ca’ Bolani, per esempio, dove la precedente impostazione aveva ottenuto risultati record, le ore di lavoro annuali, meno di 100, erano raddoppiate. «La strada del reimpianto che avevo indicato», ammette, «era lunga, faticosa e costosa, e difatti fino al 2008 abbiamo lavorato essenzialmente nelle vigne, però è proprio partendo da lì che il gruppo Zonin sta riscuotendo adesso riconoscimenti che prima gli erano negati. E questa è una grande soddisfazione, per me: ancora una volta lascio la scena nel momento in cui emerge la validità del mio contributo».

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L’Acciaiolo, uno dei vini più premiati con l’Aquilis di Ca’ Bolani e il Sassabruna di Rocca di Montemassi

Il palmarès che può vantare è infatti eccezionale: dai Tre bicchieri ottenuti più volte sulla Guida del Gambero Rosso dall’Acciaiolo del Castello d’Albola e dal Deliella del Feudo Principi di Butera, alle attestazioni ricevute da tutte le altre guide, ai punteggi altissimi di Wine Spectator e di Wine Advocate. Ma c’è un riconoscimento di cui Franco Giacosa è ancora più orgoglioso: «Il Sole che Luigi Veronelli attribuì al Deliella nel 2003».
Un altro motivo di orgoglio per Giacosa è la qualità del team tecnico che ha creato nel gruppo Zonin, con un agronomo e un enologo in ognuna delle aziende sparse in tutta Italia, al cui coordinamento finora ha provveduto lui: un esempio ben riuscito di federalismo gestionale. Ed è fiero anche di aver convinto nel 1998 Denis Dubourdieu a prestare la sua consulenza alle aziende Zonin. Consulenza sfociata recentemente nella creazione di un bianco, l’Aquilis, ottenuto nei poderi dei patriarchi di Aquileia da uve Sauvignon, di cui Dubourdieu è il più approfondito studioso, e un rosso, il Rocca di Montemassi, realizzato in Maremma; un taglio bordolese, ma hermitagée, come dice scherzosamente il suo autore, perché il blend di Cabernet e Merlot è stato reso più intrigante con un pizzico di Syrah, il vitigno dell’Hermitage.
È quindi un bilancio largamente attivo, quello che Franco Giacosa ha potuto tirare al giro di boa dei 65 anni. Come mai allora, proprio lui che ha saputo realizzarsi su tutti i piani, a cominciare da quello familiare (è felicemente sposato, con due figli e due nipoti), ha deciso di dare una svolta a una vita così gratificante, così piena, così ricca di successi personali? «Perché finora ho lavorato esclusivamente per me, un po’ egoisticamente», risponde, «e adesso mi sono reso conto che ci sono altri valori per i quali vale la pena vivere. Nel mio futuro ho deciso che ci sarà anche un impegno nel sociale». Volontariato? «In un certo senso sì, ma non posso ancora essere preciso: l’unica cosa certa è che intendo svolgere questa azione esclusivamente sul piano locale».

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Giacosa con l’enologo Carlo De Biasi

L’impegno principale lo dedicherà allo studio a tempo pieno di alternative all’agricoltura tradizionale. Obiettivi? Cibi più sani, benessere psicofisico, miglior qualità della vita. «Diventando vegetariano», spiega, «sono più sereno, mi sento meglio, e ho capito che il modo in cui ci nutriamo è il principale fattore del nostro stile di vita». Ma questo che cosa significa? Ch’è stato folgorato dalle tesi di Rudolf Steiner e si è convertito all’agricoltura biodinamica? «Condivido le preoccupazioni di quel filosofo austriaco per i danni che provoca l’uso della chimica in agricoltura», dice, «e attualmente il mio interesse va a una coltivazione senza rame e senza zolfo, di tipo omeodinamico».
Omeodinamico? Che cosa significa? «Significa che per combattere le malattie delle piante si possono usare dosi infinitesimali di quelle stesse sostanze che le hanno provocate nella pianta sana». In tutte le visite alle Case vinicole che adottano metodi alternativi di agricoltura, confessa, quella che lo ha più suggestionato l’ha fatta nella valle del Rodano a Michel Chapoutier. «Chapoutier ha 300 ettari di vigneto», spiega, «e con un’azienda di quelle dimensioni non si può giocare».
Adesso vuole approfondire la questione con uno studio sistematico, mettendo a disposizione di chiunque ne sia interessato i risultati della sua ricerca attraverso una newsletter o un sito web. «È una verifica che incuriosisce me per primo», dice, «e la condurrò con il rigore scientifico a cui sono abituato. Alla peggio scoprirò che ho preso un abbaglio. Ma io spero invece di contribuire, anche se in misura limitata, a scandagliare il rapporto tra nutrizione e benessere, che ha il suo punto di partenza nel miglioramento della salubrità degli alimenti, ma investe poi tutti gli aspetti del modo di vivere. Sono convinto, per esempio, che se riuscissimo a mangiare e a vivere in modo corretto ed equilibrato, secondo natura, riusciremmo a eliminare anche le malattie».

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© Riproduzione riservata - 04/10/2011

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