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La seconda vita dell’uva Alionza

17 Marzo 2019 Roger Sesto

Quasi scomparso, oggi questo autoctono bolognese sta risorgendo. Le descrizioni ampelografiche della bianca Alionza sono remote: la prima è dell’agronomo medioevale Pietro de’ Crescenzi, (1303). Era diffusa in provincia di Modena e Bologna e l’ampelografo Domizio Cavazza, nel suo trattato Viticoltura (1914), la descrive come uno dei migliori vitigni a bacca bianca del Bolognese.

Poco prima, a fine Ottocento, la si definiva “uva antichissima, poco produttiva, ottima da consumarsi fresca e per il suo vino molto alcolico, squisito e profumato”. Giorgio Erioli, produttore emiliano di culto, è tra i protagonisti del rilancio di quest’uva. Dopo vari studi ampelografici «presi la decisione di recuperare due cultivar secondo me importanti per storia e diffusione: Alionza e Negretto. La prima era quasi scomparsa a causa della bassa produttività, per il fenomeno dell’acinellatura (cioè quando alcuni acini restano piccoli, ndr) e per via della sua buccia spessa, a discapito del mosto».

Giorgio Erioli, tra le sue amate vigne

Malvezza, versione ferma ed elegante di Erioli

Vitigno vigoroso, predilige impianti non troppo fitti a potatura lunga, suoli collinari, climi caldi, asciutti. «Nella nostra tenuta di 4 ha, a Valsamoggia (Bologna), produciamo un’Alionza ferma e un Metodo Classico». La ferma Malvezza, Emilia Igt frutto di basse rese (50 q/ha di uva), affina 30 mesi in acciaio sur lies; ha veste oro zecchino, sa di ginestra, mele al forno, tè. È morbida, elegante, fresca, equilibrata, con chiusura mandorlata e agrumata. Di buona longevità, raggiunge il suo apice dopo oltre un lustro.

Nella foto di apertura: grappoli di Alionza con la tipica acinellatura

Per conoscere gli altri vitigni autoctoni dell’Emilia Romagna clicca qui

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