Intervista a Piero Antinori: le ragioni di un’autobiografia

Intervista a Piero Antinori: le ragioni di un’autobiografia

A fine 2011 Mondadori ha pubblicato il libro di Piero Antinori Il profumo del Chianti. Per la medesima Casa editrice e nella stessa collana, ma un anno prima, Giacomo Tachis era uscito con Sapere di Vino. Sono apparsi sugli scaffali anche i libri-intervista di Angelo Gaja (uno dei primi negli anni Novanta Sorì San Lorenzo di Edward Steinberg), Sandro Boscaini (Mister Amarone, scritto da Kate Singleton), Michele Chiarlo, Franco Biondi Santi e tanti altri. Sembra, in fondo, che i grandi del vino abbiano deciso di lasciare una traccia nella letteratura. Ma l’autobiografia è qualcosa di diverso.

La copertina de Il profumo del Chianti, autobiografia di Piero Antinori (Arnoldo Mondadori Editore)

Last but not least Piero Antinori è uscito senza clamore con un libro inatteso, considerata la riservatezza dell’uomo, e sotto un titolo semplice si dipanano contenuti importanti, che spaziano da Firenze alla California. Sono due, ci pare, gli elementi di fondo, inscindibili, che accompagnano la sua vita: l’intuizione e la fortuna dell’imprenditore di successo, con due “plus”, il profumo della vigna (non solo toscana) e la luce della storia di una famiglia di vinattieri dal 1385.
Incontriamo il marchese Piero Antinori nello studio che fu di suo padre Niccolò, sotto una grande tela di Tiziano.

– Com’è nata l’idea di un’autobiografia?
«Semplicemente, la Mondadori mi chiese se fossi disponibile a scriverla. Quando ci fu la presentazione del libro di Giacomo Tachis a Palazzo Antinori conobbi la responsabile, che dopo qualche mese mi chiese se volessi raccontare la mia vita. Ci ho pensato sopra un po’ e ho risposto “No, grazie, non me la sento”. Poi hanno insistito e si sono messe di mezzo anche le mie figlie… insomma ho capitolato.
«Io sono sempre stato più rivolto al presente e al futuro piuttosto che al passato. L’impegno è stato abbastanza gravoso, molto più di quanto pensassi: ogni volta che rileggevo una cosa non mi piaceva. Poi capitolo dopo capitolo, devo dire, ci ho preso gusto, perché emergevano dalla memoria ricordi che credevo perduti. Alla fine mi ci sono appassionato, senza avere la pretesa di scrivere un trattato sul vino: un po’ di storia della famiglia, un po’ di ricordi personali, un po’ di aneddoti… L’ho fatto soprattutto per i miei cinque nipotini. La nostra è diventata una bella realtà, rispettata in tutto il mondo e offre straordinarie possibilità di avere un lavoro appassionante, di stare a contatto con la natura, di viaggiare… Ecco vorrei che quando i miei nipoti leggeranno il libro si rendessero conto che è un grande privilegio avere un’opportunità di questo tipo, una fortuna che comporta anche delle responsabilità.
«Spero di aver trasmesso il concetto che le aziende non si costruiscono dall’oggi al domani, ma ci vogliono decenni o secoli, come nel caso nostro. E ognuno ha portato il suo contributo. Ci sono stati momenti facili e altri difficili. Per caso o per fortuna ci si trova titolari e questo comporta grandi oneri, richiede un contributo da parte di ogni generazione».

– Il libro è suddiviso per “vini”, che poi corrispondono a epoche e temi. Vorremmo ampliare la visuale di alcuni argomenti. Ad esempio, capitolo primo: Montenisa, cioè bollicine. Che ne pensa dell’eterno successo Champagne?
«Lo Champagne è un prodotto straordinario, che non finisce di stupirci. Le statistiche ci dicono che in questo momento sta andando di nuovo benissimo. Come tutto è soggetto ad alti e bassi, dovuti a situazioni particolari di mercato, però continua ad avere un trend positivo. Sono riusciti a renderlo un mito, garantendo una qualità sempre ineccepibile.

L'edicola in via Tornabuoni dalla quale i vinattieri di Palazzo Antinori passavano le bottiglie ai clienti

«I francesi controllano e gestiscono il territorio e non aumentano la produzione se non in maniera oculata e prudente. È un vino eccezionale perché riesce a far guadagnare tutti nella filiera, dal viticoltore all’imbottigliatore al dettagliante… Poi è diventato un simbolo del lusso, della festa, della celebrazione più di tanti altri vini ed è un emblema nazionale».

– Vogliamo ricordare il vostro rapporto con Krug?
«Diciamo che per ragioni fortuite, ci siamo trovati con la responsabilità di distribuirlo in Italia. L’esperienza è durata 30 anni, un record, perché è difficile che un importatore gestisca così a lungo una marca. Poi è finita, quando la Maison è passata in un gruppo articolato come la LVMH, che ha una sua organizzazione in Italia. Le dirò: dato che noi non ci sentiamo importatori, questa dello Champagne è stata un’esperienza davvero casuale.
«Prima di noi, il Krug era importato in Italia da una piccolissima azienda familiare fiorentina che si chiamava Silver. I soci si chiamavano Bernardini e Vinci. A un certo momento s’erano messi in testa di trattare dei vini straordinari. Fra questi c’era il Krug, agli inizi della sua epopea. A un certo momento noi e la Silver utilizzavamo gli stessi agenti di vendita. Quando la loro società fu dismessa, ci fu proposto di acquisire la distribuzione di Krug e accettammo perché si integrava bene nel nostro portafoglio.
«Quando il rapporto si è chiuso, non era per noi importante avere un altro Champagne, se non che i nostri agenti erano abituati a vendere Krug e ci manifestarono il desiderio di sostituirlo. In quel mentre, la Pernod Ricard ci propose di occuparci di Perrier – Jouët. Ci piace e ci consente ogni tanto di andare nella Champagne a scambiare idee e tecniche, è una liason utile da un punto di vista culturale».
«La Pernod Ricard è una grande azienda con una bellissima organizzazione di vendita in tanti Paesi e un giorno, chissà, potremmo pensare a un progetto assieme. Li conosco da molti anni e so come hanno lavorato finora. Il presidente si chiama Patrick Ricard ed è una persona di primissimo ordine che l’ha sviluppata in maniera straordinaria portandola a essere il secondo gruppo che tratta liquori e vini del mondo, dopo la Diageo. È enorme».

– Liquori e vini, un capitolo interessante. Le multinazionali che hanno cercato di coniugare i due prodotti spesso hanno fallito la missione col vino, non le pare?
«Un contrasto c’è, ma non con i vini di fascia media, dal gusto internazionale, che si vendono con un marketing aggressivo e tanta pubblicità. Proprio Pernod Ricard, ad esempio, ha un vino molto conosciuto, l’australiano Jacob’s Creek. Ne vendono milioni di casse in tutto il mondo e si trova in qualsiasi duty free. Però se si tratta di vini di alta qualità, compresi gli Champagne, il conflitto ci può essere. In tal caso si adotta un marketing completamente diverso, basato molto sulla conoscenza specifica del prodotto e meno sulla pubblicità sui mass media».

La nuova "casa" Antinori a Bargino di San Casciano Val di Pesa nel Chianti Classico, disegnata dall'architetto fiorentino Marco Casamonti

Che ne pensa della situazione delle bollicine italiane?
«Continuano a funzionare bene, il mercato è in crescita, sia il Metodo Classico sia gli Charmat, e il Prosecco specialmente, un fenomeno straordinario in tutto il mondo. E non dimentichiamo che l’Asti Spumante in un certo periodo di tempo ha avuto un successo internazionale notevole».

– Il nostro problema è che non sappiamo trovare una valida alternativa alla definizione Metodo Classico, che è poco “comunicativa”. È d’accordo?
«Purtroppo è un nostro handicap. L’unica che forse ha fatto un tentativo di affrancarsi da questo peso è stata proprio la Franciacorta, dove abbiamo deciso di produrre le nostre bollicine. In verità, il nostro rapporto con lo spumante è molto antico, perché cominciò mio nonno agli inizi del ‘900, era fatto qui in Toscana, anche se si utilizzavano uve provenienti dall’alta Italia. Ora la Toscana si è affermata per i grandi rossi, quindi volendo continuare questa tradizione abbiamo scelto una zona particolarmente vocata per le bollicine».

– Nel secondo capitolo si parla del Villa Antinori e della sua passione per La Mission Haut-Brion, che diventò il suo punto di riferimento. Altri francesi hanno segnato il suo gusto?
«Devo dire che sono stato influenzato soprattutto dai grandi vini di Bordeaux, fra cui La Mission che mi folgorò, ma era un’annata straordinaria: 1959».

– A proposito de La Mission, nel libro la collega a un episodio incredibile: quando lo riconobbe alla cieca durante una cena con quello che – grazie a questo exploit – sarebbe diventato il suo storico distributore tedesco, Michael Bömers. Perché predilige il Bordeaux alla Borgogna?
«Li preferivo soprattutto in quell’epoca. Hanno più affinità con i nostri vini, i borgognoni sono completamente diversi, anche come stile, molto più floreali. Oggi mi piacciono moltissimo anche i vini di Borgogna. In ogni modo è più facile trovare grandi Bordeaux, sia come annate sia come gamma di etichette. La Borgogna è più selettiva e si passa da vini banali a (pochi) grandi. Certo, anche Bordeaux ha una massa di vino comune, però la differenza qualitativa tra premier cru e l’ultimo dei bordolesi si è molto ristretta. Mentre è aumentata enormemente la differenza di prezzo: è un fenomeno peculiare».

A proposito di prezzi, che cosa ci manca per non essere eterni secondi come quotazioni dei nostri vini? È una questione di secoli o di marketing?
«Credo che sia prima di tutto una questione di secoli. In fondo noi siamo gli ultimi arrivati, o quasi, nel senso dell’alta qualità. Abbiamo cominciato quarant’anni fa, che sono pochi per il vino e secondo me abbiamo già fatto tanto. Poi ricordiamoci che – ai livelli top – non sono molti i vini francesi che hanno prezzi molto superiori ai nostri, una ventina fra Bordeaux e Borgogna».

L'albero genealogico della famiglia Antinori

Nel 1966 assunse la presidenza dell’azienda. Sono 45 anni ai vertici del vino italiano. Com’è cambiato il consumatore in mezzo secolo?
«Tantissimo. Nel 1966 eravamo ancora nell’era precedente, quella “del bianco e del rosso” e della quantità più che della qualità del vino, che doveva costare poco. Veniva consumato dal contadino che aveva bisogno di carburante. Sono cambiati lo stile di vita e la cultura del vino. All’epoca, chi era abituato al Chianti beveva solo quello. Oggi se non altro c’è una curiosità maggiore anche da parte dei giovani».

– Come li vede questi “giovani”?
«Cominciando dall’America è positivo il fatto che ci sia un crescente numero di consumatori della “millennium generation”, nati in famiglie che avevano già una certa dimestichezza con il vino, anche se magari non lo bevevano tutti i giorni. Sono quelli che ora hanno 25-30 anni, nati con un minimo di familiarità con questo prodotto. Negli Stati Uniti il consumo continua a crescere. Un nuovo percorso è appena iniziato, perché ci sono zone degli States dove il vino è ancora poco conosciuto».
«Anche in Italia è in atto la trasformazione del consumatore, che una volta si legava per tutta la sua vita un tipo di vino. È molto più aperto e flessibile, meno fedele ma più curioso.
«Hanno tentato in tutti i modi di additare il vino come causa di stragi, l’incidente stradale era sovente associato all’ubriaco, ma ora non è più così. È evidente che sono altre le cause».

– Quello intitolato a Solaia è un capitolo importante. Prima di tutto: le sue annate preferite quali sono?
«Dunque, la prima, cioè il 1978, e tra le più recenti il 1997, perché è stata l’annata del successo, che ne ha consacrato l’immagine, anche grazie al fatto che il vino fu classificato al primo posto nella classifica di Wine Spectator. Amo anche le ultime annate, perché abbiamo apportato dei cambiamenti sia sotto l’aspetto viticolo sia sotto quello enologico. Ora abbiamo una cantina dedicata al Solaia, dove facciamo una selezione severissima, con un sistema di fermentazione e di invecchiamento particolari. Le annate 2004 e  2007 indicano la strada stilistica del Solaia futuro.
«Quanto al ’78, non lo amo solo perché è stato il primo, ma perché mi ha regalato una di quelle sorprese che ogni tanto nel vino si verificano. Vede, la prima produzione del Solaia non fu neppure messa in commercio, perché pensavamo che, data la giovane età dei vigneti, non avrebbe avuto un grande potenziale d’invecchiamento. Invece, mi è capitato non molti giorni fa di assaggiare una bottiglia del ’78 ed era ancora fantastica. Fa parte dei misteri del vino… Sulla carta non doveva essere così».

– Nello stesso capitolo sottolinea il fatto che la Marchesi Antinori debba soddisfare un po’ tutti: la massa e l’incontentabile. Si parla di alcune mode che lei ha visto nascere e morire, a cominciare dalla vostra bottiglia a forma di pesce, la fish bottle. Poi il Galestro, il Novello e ora il rosso freddo. Ha qualche idea sulla prossima?
«Guardi ora è difficilissimo prevedere l’evoluzione del gusto. Io credo che la prossima moda non sarà di un prodotto specifico, ma di una tipologia, la più difficile da produrre: vini di notevole struttura, profumati e intensi, con un tenore alcolico contenuto. Oggi madre natura ci porta ad avere vini perfetti, ma potenti, ma dobbiamo arginare questa tendenza, altrimenti avremo una diminuzione dei consumi.

La Tenuta Tignanello, dal 1974 protagonista della nuova immagine del Chianti grazie ad Antinori

I fenomeni ai quali accennavamo, però, si basavano sul marketing. Il Galestro fu un’operazione condotta con una certa orchestrazione, con un marchio e una promozione pubblicitaria. Iniziative del genere sono irripetibili?
«È stato anche un fenomeno che ha visto forse per la prima volta in Italia un’associazione fra aziende concorrenti, rimarchevole perché l’individualismo è nel nostro dna, soprattutto fra agricoltori e quindi difficilmente replicabile».

– Che visione ha dei nuovi mercati?
«Le dico la verità: conosco questi Paesi perché ci sono stato innumerevoli volte, però non così in profondità. La mia impressione è che anche qui si verificherà quanto accadde negli Stati Uniti, quando era un mercato emergente».

– Sono paragonabili la Cina di oggi e gli Usa di trent’anni fa?
«Per alcuni aspetti sì. Sono luoghi dove la popolazione comincia ora ad avvicinarsi al vino. La differenza è che negli Stati Uniti agli inizi il vino italiano aveva un’immagine pessima, come quasi tutto il made in Italy. La ristorazione era considerata quella degli emigranti.
«In un certo senso nei mercati emergenti si parte da una posizione avvantaggiata, perché la ristorazione italiana è rispettata e ha lo stesso livello di reputazione e di qualità dei grandi ristoranti francesi. Inoltre non c’è una storia di vini italiani mediocri, di bottiglioni da due litri col tappo a corona. Là è stata fatta una rivoluzione, qui non ce n’è bisogno».
– Però manca la figura dell’emigrato, che ha creato una parte del mercato.
«Sì, ma oggi il made in Italy ha un’immagine decisamente superiore e credo che tutti i settori si aiutino a vicenda. La reputazione della moda italiana sostiene probabilmente i gioielli, i gioielli aiutano le Ferrari e quando la Ferrari vince un Gran Premio si vende più vino italiano.
«In definitiva, credo che tutto sommato oggi sia più facile vendere i nostri prodotti nei mercati emergenti di quanto non lo fosse negli Stati Uniti degli anni Sessanta, perché era difficile cambiare un’immagine già consolidata. E se ci siamo riusciti lo dobbiamo anche a figure come quella di suo nonno Pino Khail (fondatore di Civiltà del bere) e di Lucio Caputo».

– Secondo lei ha senso promuovere l’incoming? Portare in Italia giornalisti e opinion leader…
«Senz’altro, perché li aiuta a vivere il mondo dietro la bottiglia, che per noi è fondamentale, perché abbiamo storia, cultura, tradizione, bellezze naturali, gastronomia, opere d’arte. Solo venendo qui, è possibile rendersene conto e apprezzare in pieno il prodotto italiano».



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© Riproduzione riservata - 22/03/2012

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