Il concetto di blend

Il concetto di blend

Di Aldo Fiordelli

 

Anche il più puro dei Sangiovese o dei Nebbiolo è quasi sempre figlio di un blend. Siamo soliti associare il concetto di blend ai vitigni diversi, al taglio bordolese su tutti, ma anche all’esotico Gsm (Grenache, Syrah, Mourvèdre) nel Nuovo Mondo, al plurivarietale Châteauneuf-du-Pape che ne annovera fino a 18 (dal 2009) o restando in casa nostra a un altro autoctono come l’Amarone (Corvina, Rondinella, Molinara…). Il blend però è anche quello tra un’annata e l’altra dello stesso vino, tra botti diverse, tra zone vicine di una denominazione, tra vinificazioni separate magari anche nello stile. Si potrebbe più propriamente parlare di “taglio” in questi casi, ma in effetti quello bordolese non è il padre di tutti i blend?

Continui aggiustamenti per il clima che cambia

Partendo dalla vigna, i cambiamenti climatici stanno spingendo sempre più aziende a vendemmie mirate a ottenere vini quasi opposti da tagliare tra loro. Leonardo Raspini, ex agronomo di Ornellaia e oggi direttore generale della Cecchi, ha spiegato che il Vermentino di Val delle Rose in Maremma viene raccolto a piena maturità in collina e precoce in pianura. «Abbiamo visto negli anni che il Vermentino in basso non matura benissimo, nonostante la maggior parte delle aziende lo abbia proprio in pianura. Quindi abbiamo deciso di portare le uve di collina a piena maturazione per dare frutto e grassezza al vino, e sfruttare quelle in basso per mantenere elevata la freschezza e quindi l’equilibrio e la bevibilità del nostro vino».

Blend bordolesi in evoluzione

Si tratta a ben vedere di una migliore interpretazione di quanto storicamente già succedeva nella nostra penisola con le diverse varietà raccolte però insieme. Percorso più oculato a Bordeaux, dove già dai primi anni del Novecento si è vissuta una stagione votata alla qualità. Sbaglierebbe chi pensasse a una fissità dei blend bordolesi, invece in continua evoluzione.

Il Merlot che soppianta il Malbec

Eccone due esempi. Il Merlot, oggi dato per scontato a corredo del Cabernet Sauvignon sulla riva sinistra e come protagonista sulla riva destra, in realtà non lo era affatto prima della fillossera. All’epoca era più diffuso il Malbec che arrivava nel 1911 fino al 22% e ancora oggi presente ufficialmente e anche in piccole percentuali, nel patrimonio ampelografico e vinicolo bordolese. Dovendo ripiantare sui portinnesti ci si accorse che il Merlot si comportava meglio in termini di rese ed equilibrio rispetto al Malbec che, come confermano le vigne argentine, dava migliori risultati invece su piede franco. A spiegarlo è Kees van Leeuwen, professore di agronomia a Bordeaux.

Il ruolo del suolo nel concetto di blend

Ma ancora oggi il blend bordolese è, almeno sulla carta, in evoluzione. Non solo perché la maggior parte degli enologi
modifica l’uvaggio a seconda delle caratteristiche dell’annata. Nei 2003 o nei 2009 di Saint Émilion si trovano percentuali ridotte di Merlot. Ma anche perché i cambiamenti climatici stanno spingendo verso la riconsiderazione di alcuni vitigni. Il professore avrebbe notato infatti che alla cieca il suolo viene fuori con maggiori evidenze di quanto non faccia il vitigno. Cioè che si assomigliano tra loro di più un Cabernet e un Merlot su argilla che due Cabernet, uno su argilla e uno su sabbia. Che sia una nuovo approccio al blend?

Da noi si mescolano vini da diversi terroir

Uno degli aspetti più dibattuti nel nostro Paese invece è il taglio tra diversi terroir. Nello sviluppo dei territori italiani
del vino, uno degli elementi più cristallini dell’emancipazione verso una maggior espressività è stata la scoperta e la valorizzazione del cru. Ma l’analisi appunto è dibattuta su cosa sia più espressivo: se appunto il singolo vigneto, oppure un concetto più allargato di terroir legato a una denominazione o a un comune.

I casi di Barolo e Brunello

Prendete ad esempio Barolo. Ci sono molti produttori che ancora oggi tagliano diversi appezzamenti di vigneto per produrre il vino della Docg. Sostengono che non esista miglior e più complessa espressione di Barolo se non quella ricavata dalla struttura di Serralunga, dal frutto di La Morra, dall’equilibrio austero di Monforte. Ancora più frequente a Montalcino dove una delle più rinomate etichette dell’ultimo decennio, Le Potazzine, è diventata celebre proprio grazie al blend tra l’eleganza e la maturità fenolica di Sant’Angelo in Colle e la potenza e la struttura della parte meridionale alta di Montalcino.

Un grande vino da un grande vigneto

È opinione dello scrivente che il singolo vigneto possa essere la più alta ed emozionante testimonianza di un territorio, ma non deve mancare ciò che ad esempio Luca Sanjust di Petrolo, vicepresidente di A.Vi. To (Associazione vini toscani Dop e Igp) chiama alla latina anziché alla francese genius loci, quella vocazione, quell’insieme ideale che consente di fare un grande vino da un singolo grande vigneto.

Al concetto di blend è dedicata l’intera monografia di Civiltà del bere 03/2016. Per continuare a leggere acquista il numero nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com.
Buona lettura!

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© Riproduzione riservata - 24/06/2016

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