I riti della vendemmia. Uomini, donne e bambini, tutti insieme appassionatamente

I riti della vendemmia. Uomini, donne e bambini, tutti insieme appassionatamente

È tempo di vendemmia, in alcune zone viticole italiane si è conclusa, in altre si raccolgono le varietà tardive. È quindi tempo di riti, contemporanei come “Cantine aperte” e antichi, come le svariate feste della vendemmia, la cui memoria si ravviva nelle sagre organizzate in alcuni borghi vinicoli.

Eppure, questa ritualità, in un Paese “enoico” come il nostro, un tempo era molto sentita, se non il fulcro della socialità di alcune comunità contadine. Ci sembra il momento giusto di ripercorrerne i significati, grazie a un dotto articolo pubblicato nella nostra monografia sulla vendemmia (Civiltà del bere 5/2015, disponibile qui anche in digitale).

Cosa resta di riti millenari?

Passeggiate notturne e sedute mattutine di yoga fra i filari in Valpolicella. Percorsi fuoristrada nei vigneti montani di Termeno (Bolzano). Tour in bicicletta nelle vigne di San Casciano Val di Pesa (Firenze). Zampicate (la pigiatura dell’uva con i piedi) all’Isola d’Elba. Cavalcate nelle tenute agricole di Menfi (Agrigento). Distillazioni notturne con gli alambicchi delle vinacce di Nebbiolo ad Alba (Cuneo). Laboratori per bambini con raccolta e pigiatura delle uve a Sassuolo (Modena) per trasmettere anche ai più piccoli la conoscenza della civiltà del vino. E si potrebbe continuare, dedicando a ogni vigna d’Italia un’iniziativa, un’idea, un richiamo alla tradizione, attraverso cui i riti millenari della vendemmia si rinnovano nella versione più attuale, quella dell’enoturismo.

Una fuga dalla città

Da anni alle porte dell’autunno le infinite manifestazioni che si raccolgono intorno al marchio Cantine Aperte – visite guidate, assaggi di uva e mosto, degustazioni – si sono estese alle fasi della raccolta dell’uva e richiamano migliaia di enonauti, viaggiatori del vino pronti a lasciarsi alle spalle gli stress metropolitani per lanciarsi alla scoperta della vita contadina e dei suoi prodotti più genuini e pregiati. Nessun dubbio che siano loro i veri protagonisti delle nuove ritualità legate alla vendemmia.

Le Vinalia, feste religiose

Ma se è vero che la coltivazione della vite risale a qualche millennio prima di Cristo, è facile immaginare che le tradizioni contadine legate alla vendemmia non siano di molto più giovani e abbiano sempre interpretato un ruolo importante nella cultura di tutti i popoli. Per rimanere dalle nostre parti, è indubbio che la civiltà che più di ogni altra ha rivestito di un’aura sacra, e insieme profana, tutto ciò che riguarda la vite e il vino, sia stata quella romana. Le Vinalia urbana (il 23 aprile, per celebrare il raccolto dell’anno precedente) e le Vinalia rustica (il 19 agosto, per propiziare una vendemmia abbondante) erano celebrazioni religiose solenni (anche se, si può immaginare, piuttosto allegre). Ed è fin troppo trasparente la simbologia legata all’uva e al vino che il cristianesimo ha portato con sé; la vite simbolo di speranza per i perseguitati cristiani e il vino elemento centrale dell’eucarestia.

La vendemmia, una festa

La civiltà contadina di tutte le regioni italiane ha conservato intatto il duplice sguardo sul momento della vendemmia; epilogo di un duro anno di lavoro e festa per tutte le età e tutti i gradini della scala sociale nella condivisione della speranza. Come testimoniano gli esempi che seguono, scelti fra i tanti possibili da ogni regione d’Italia.

Nella valle del Savuto, i grappoli si colgono nel grembiule

Da una vivida narrazione delle vendemmie di un tempo a opera di Fiore Sansalone, ricostruiamo i momenti salienti della raccolta dell’uva nella valle del Savuto, fiume calabrese che nasce sulla Sila e si getta nel mar Tirreno.
“Per la vendemmia si sceglie una tarda mattinata soleggiata così che l’uva non bagnata dalla rugiada si conservi più a lungo.
Da giorni ogni famiglia si dedica ai preparativi e mette da parte cisti e cistelli, sporte e spurtuni, panari. Si reclutano gli asini, si fa la conta dei parenti e vicini che partecipano, si mettono da parte i coltelli e le forbici e l’esperto anziano pulisce il palmento.
Il mattino del gran giorno gli uomini osservano il cielo e la direzione del vento e ci si dirige verso il vigneto. Per i sentieri della valle del Savuto è un lungo corteo di uomini, donne, giovani, anziani, bambini che intonano canti d’amore cui nella vallata altri gruppi rispondono con altrettanti cori. Giunti sul posto e scelta l’aria, un pianoro dove fermare gli asini, tutti si sparpagliano tra i filari e prima di dare il via si fanno il segno della croce.
Le donne, con il capo coperto dal maccaturu annodato alla nuca, raccolgono l’uva dentro il grembiule, ’u sinale, per poi riversarla nelle sporte che si scaricano all’aria dentro gli spurtuni, trasportati dagli asini fino al palmento. Si continua fino all’arrivo della massaia con il mursellu, quando comincia un altro rituale”.

riti vendemmia
Il palmento, dove si svolgeva la pigiatura

Il pranzo in gruppo

“All’ombra degli ulivi tutti si siedono a terra in circolo. ’U mursellu viene preso d’assalto, non solo dai più piccoli.
Pane casereccio, peperoni arrustuti, supressata, prisuttu, patate fritte con pancetta, olive, melanzane sott’olio, pecorino silano e tante brocche di terracotta colme di vino costituiscono il pranzo della vendemmia.
Tra un bicchiere di vino e l’altro chi rievoca episodi delle vendemmie passate, chi racconta rumanze, chi improvvisa brindisi. Dopo la pausa, più allegri di prima, si riprende il lavoro fino a tarda sera. Le donne fanno ritorno a casa con in testa un paniere della migliore uva che il padrone distribuisce. Gli uomini, a piedi nudi e a ritmo cadenzato, ciampano l’uva”.

Un momento di condivisione

Dal sito della Comunità montana dei Monti Azzurri cari a Leopardi, provincia di Macerata, ricaviamo il racconto di altre tradizioni, simili e diverse.
“La vendemmia era uno dei momenti più gioiosi dell’anno; anche se la fatica era intensa, la si superava con l’allegria dei canti, delle risate, delle stornellate. Come nella mietitura o nella battitura, si faceva sì che un lavoro faticoso si trasformasse in un momento di socializzazione, allegro e quasi di evasione: lavorare al fianco di altre persone estranee al nucleo familiare significava uscire dall’isolamento materiale della famiglia relegata per tutto l’anno tra le pareti della propria casa colonica al centro dell’appezzamento da lavorare. Nei campi, le ceste si colmavano di uva che poi riempiva i birocci tirati da coppie di buoi bianchi. L’uva si trasportava nelle cantine in paese in un variopinto via vai. Chi aveva già pigiato l’uva faceva bollire una parte del mosto in caldaie di rame annerite dall’uso, mentre per le strade circolavano anziani che, con la pagnotta sotto il braccio, si offrivano di intingere un pezzo di pane nel caldaio per assaggiare il mosto in ebollizione ed esprimere il parere sulla qualità del vino cotto che ne sarebbe derivato”.

Canti, risate e barzellette

Dal sito di Villacidro, capoluogo del Medio Campidano in Sardegna, traiamo un altro ritratto di una vendemmia degli anni Cinquanta.
“Verso metà settembre si incominciavano a depurare le botti nella cantina. Si lavavano con acqua bollente unita a cenere, buccia secca d’arancia e di mela, finocchio selvatico e qualche foglia di alloro (laberi). Tutti gli ingredienti si facevano bollire assieme (sa mussa) e si gettavano dentro la botte che veniva risciacquata più volte prima con acqua bollente e poi con acqua fresca. Una volta preparate le botti si poteva iniziare la vendemmia. Si mettevano il tinello (su cubeddu) e i cesti di vimini nel carro e si andava a sa binnenna con le forbici o la roncola. Le donne lavoravano e cantavano e si raccontavano contus, storie e barzellette perché la vendemmia era una festa.

La nascita del vino

“Nel cortile della casa, sotto il portico, il contadino (su mustadori) schiacciava l’uva con i piedi; poi il liquido misto a impurità usciva da un foro del tino chiuso con un bastone; le parti più dense, cioè le vinacce, restavano nel tino e venivano raccolte per ultimo per essere poi schiacciate nel torchio (sa pressa). Per raccogliere un po’ di mosto si usava una mezza zucca (croccoriga) come mestolo. Il mosto veniva versato con un imbuto (imbudu) dentro le botti, si usava calcolare con una brocca di latta (su decalitru) la quantità di liquido versata e di volta in volta si segnava nella botte una linea (sa tacca). Alla vinaccia ben schiacciata si versava una certa percentuale di acqua e la si lasciava raffinare per un paio di giorni, poi veniva nuovamente pressata e il suo liquido (su piricciò) si lasciava decantare per un paio di settimane e infine era bevuto prima che fosse pronto il vino buono”.

Foto di apertura: una foto d’epoca nelle vigne di Sella&Mosca (Sardegna)

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© Riproduzione riservata - 08/10/2021

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