Dalla foresta al piatto con il foraging&co.
La raccolta di cibo selvatico, erbe, bacche, fiori e cortecce per dar vita a nuove ricette è di tendenza tra gli chef che vogliono rafforzare il proprio legame con la natura. Ma le radici di questa filosofia affondano nelle tradizioni e culture contadine.
Occorre più che mai un cambio radicale di prospettiva per sottrarre alcune tra le più celebrate esperienze a livello globale a quella patina trendy che, in nome del glamour, le limita in una gabbia dorata ad uso di élite spesso annoiate, col rischio, per di più, di privarle di quella carica rivoluzionaria, che invece possiedono, e che oggi fa la differenza quanto a incidere sugli stili di vita.
A caccia d’ingredienti
Sedersi a un tavolo di Alex Atala nel suo D.O.M. a San Paolo in Brasile con gli ingredienti foraggiati direttamente nella foresta amazzonica resta un’esperienza unica. Come una rarità da immortalare sui social è gustare nello Yorkshire il dessert fumante “Douglas Fir” dello chef stellato Tommy Banks che imita e restituisce i profumi dei suoi boschi. Senza tacere dell’incredibile possibilità d’immergersi nella cultura gastronomica aborigena nel Kakadu National Park, nel nord dell’Australia. Una trasvolata imperdibile per chiunque voglia abbeverarsi a quella sapienza accumulata in oltre 30 mila anni di vita e che ha fatto dire allo chef Lennox Hastie, in libreria con il suo Fuoco. Cucina primordiale, che «nessuno ama l’Australia come gli aborigeni che sanno ascoltare il suo respiro profondo».
Il fascino dell’esotico
Se è ancora il fascino dell’esotico a intrigarci e il pensiero vola in Svezia, capofila con i paesi del Nord di questa chiccosissima “tendenza foraging”, si è in obbligo di citare quella leggenda planetaria, ormai ahinoi tramontata (perché da quest’anno chiusa), che fu lo sperduto ristorante Fäviken circondato da 8 mila ettari di terreno agricolo. Per non dimenticare quel rito di passaggio – Skogsmulle – in cui i bambini svedesi vengono inviati nella foresta con un adulto vestito da troll benevolo che insegna loro il rispetto di piante, animali e del circolo della vita.
Tendenze sì, ma non da ieri
Eppure foraging, che è anglismo trendy – spiega l’esperta di erbe Eleonora Matarrese – designa la pratica atavica di «raccogliere cibo selvatico, erbe, frutti, fiori, bacche, cortecce, radici, funghi, alghe nell’ambiente naturale il più possibile incontaminato». E a esso si collegano tendenze oggi in gran voga come la raw kitchen (la cucina crudista che va alla ricerca di un livello primitivo di cibo ritenuto più autentico) e l’alimentazione plant-based (che poggia la propria filosofia sulla sostenibilità e la tutela della biodiversità). Ma ciò che va doverosamente sottolineato è come il foraggiamento sia pratica già viva alle nostre latitudini e non certo da oggi.
In Puglia un quarto delle specie selvatiche d’Italia
«Al Sud, in famiglia, la gente raccoglie le erbe normalmente», prosegue Eleonora che sottolinea come il 25% delle specie selvatiche di tutta Italia cresca nell’entroterra della sua Puglia. «Salicornia, finocchietto, origano, capperi spontanei si vendono sui banchi dei mercati. Di cicoriette ve ne sono 22 specie. A Santo Stefano l’espressione “bisogna sciacquarsi” perché si è mangiato tanto rimanda al brodo in cui entrano le cicorie (depurative) e il finocchietto dolce. In Molise il tanto bistrattato finocchio marino, per anni ritenuto infestante e oggi quasi introvabile, veniva venduto fuori dalla porta di casa dalle signore che lo mettevano sott’olio e sott’aceto».
La cultura contadina e il legame con la natura
Per lo chef Luca Landi, del ristorante stellato Lunasia di Viareggio (Lucca), la cultura contadina toscana è parte non solo del retaggio familiare ma è realtà ancora diffusa.
«La sapienza empirica di mia nonna e dei miei avi impiegava le erbe di un territorio che va dalla montagna (le Alpi Apuane) al mare a scopo curativo, rivolte com’erano alla persona, agli animali e alla casa. Le erbe erano onnipresenti come condimento».
Legame con la natura che si rinnova ancor oggi con quei teneri fusti di acetosa che lo chef dà in primavera, a mo’ di caramella, alle proprie figlie passeggiando insieme in montagna.
Ci sono sapori che sono nel nostro Dna
Gian Michele Galliano, chef dell’Euthalia di Vicoforte (Cuneo), ai piedi delle Alpi Occidentali, è netto al riguardo: «Sono cresciuto in montagna e mi sono appassionato alle erbe perché hanno proprietà gustative e benefiche, ma soprattutto sviluppano una gamma di sapori, oggi magari sopiti, che sono presenti nel nostro Dna». Di lì nasce la sua volontà di recupero d’un gusto storico e inebriante come l’assenzio.
La transumanza, tradizione antica da riscoprie
Il cambio di prospettiva, in un periodo denso d’incognite come il nostro, richiede di non disperdere quei segni fecondi che qua e là s’affacciano carichi di stimoli preziosi. Come il “Transumanza Day” cui la famiglia Gortani dà vita ogni anno in Carnia in collaborazione con Slow Food.
L’antichissima pratica (che è patrimonio immateriale Unesco) diviene l’occasione per i partecipanti di accompagnare le vacche alle malghe. «Durante il percorso di salita», spiega Michele Gortani, ultima generazione di una famiglia la cui prima transumanza risale al 1923, «si raccolgono le erbe spontanee come la cicerbita alpina, lo spinacio selvatico e il tarassaco, quella biodiversità vegetale, cioè, che poi incide sulla biodiversità del cibo». E a metà percorso si mangiano i formaggi di malga su quell’erba dove le vacche pascolano e daranno vita agli stessi formaggi.
Il pane nato dalla tempesta
Ancora sullo Zoncolan, a due passi dall’Austria, lo chef Stefano Basello, del ristorante Il Fogolar dell’hotel Là di Moret di Udine, si reca ogni settimana nel bosco alle 5 della mattina per dar vita a un pane che ricava dalle cortecce degli abeti rossi sradicati dal vento nel disastro del 2018: tali farine, unite al lievito madre di 54 anni della nonna dello chef, fanno nascere un pane, fragrante nonché premiatissimo, che oggi è lo straordinario ambasciatore del suo territorio.
«Il Friuli», spiega con umiltà lo chef Basello, «è rimasto una terra nascosta, con prodotti a rischio di estinzione, ma dalla ricchissima biodiversità. Per chi vive il bosco, le piante hanno una conoscenza antica, quella loro stessa vita che ci viene regalata. Prepariamo il pane con i licheni, con la farina di patate e le ghiande. Il recupero delle farine di sussistenza (in tempo di guerra si faceva la polenta con le farine di frassino e betulla) appartiene al ruolo che un cuoco deve avere nel valorizzare le tradizioni centenarie».
Dar valore agli scarti
E proprio il rifarsi a preparazioni che nascono da necessità diviene lo spunto – per uno chef curioso e colto come il procidano Marco Ambrosino, del ristorante 28 Posti di Milano – di mettere a fuoco quella che è la vera posta in gioco in un dibattito come il nostro. «Lo scarto diventa l’opportunità di valorizzare un ingrediente una volta di più. Nei miei viaggi-menu attorno al bacino del Mediterraneo, così ricco di biodiversità, indago quella civiltà rurale che utilizza prodotti di prossimità, come la tradizionale raccolta di erbe selvatiche. L’aspetto antropologico che più mi affascina consiste nel raccontare quelle storie di cibi che si sono fatti largo a partire da un bisogno. Oggi un piatto buono è il minimo sindacale che si chiede a uno chef. Piuttosto con un piatto si ha la possibilità di partecipare a un dibattito globale su un tema chiave come quello del cibo».
Sostenibilità in tavola
Il foraggiamento non rimarrà una semplice moda, ma una pratica che trasmette e sollecita un diverso stile di vita «se e solo se saprà partire dal campo». È il pensiero che unisce Francesco Scarrone e sua moglie Carol Choi che dopo aver lavorato in alcuni dei più importanti ristoranti al mondo in tema di foraging (Carol, americana di origini coreane, è stata al Noma di Copenaghen) hanno aperto in Valchiusella, nel Canavese, quel Rantan che nel fine settimana diviene “microfarm dove mangiare insieme”.
«È il campo», ribadiscono. «È la natura a dettare i tempi, quello che si trova e non quello che vorresti trovarci tu».
Evitare sprechi
Fa loro eco, in tema di diversi stili di vita, Enrico Buselli che nel suo Life Bistrot a Volterra (Pisa) realizza quella filosofia plant-based in cui crede e che va intesa, ci dice, «come sostenibilità tanto alimentare che in termini di ospitalità. A pranzo il cibo si vende a peso e una smart card posta su ogni tavolo permette al cliente di mangiare subito, a seconda dell’appetito, pagando alla fine ed evitando gli scarti». Nella meravigliosa cornice dell’antica città etrusca quest’imprenditore appassionato ha dato poi vita a un albergo diffuso, nato dal recupero di appartamenti in degrado nel centro storico e che dopo il restauro rimangono di proprietà, pur aperti al turismo, delle antiche famiglie di Volterra.
L’ingrediente al centro
Un segnale prezioso viene anche dall’alta cucina quando si rinnova e sublima, con la propria arte, quel cambio di passo rivoluzionario che pone al centro l’ingrediente e non più la ricetta. Lo fa Gian Michele Galliano con la sua iconica “Zuppetta di erbe primaverili” che riunisce ogni anno i fiori delle primule e della borragine, le punte di tarassaco, della menta e del prezzemolo selvatici, i primi steli di cipollina, la maggiorana, il timo serpillo e il tutto viene servito in ciotole e cucchiai di legno in omaggio a quella terra (e civiltà) che da sempre li ha generati, raccolti e se ne è nutrita.
Anche la pizza diventa sostenibile
La funambolica “Passeggiata nel parco di Monza” è la pizza gourmet, servita su un piatto con incorporata una cassa di risonanza con registrati i suoni del parco, su cui convergono tra le 35 a le 40 erbe raccolte dallo chef Ivan Gorlani di Era Pizza a Monza. La parte burrosa è data dall’ortica da cui lo chef ricava un’emulsione con le foglie di tarassaco. I luppoli sono fritti. Dalla piantaggine – con i suoi sentori di porcino – vien fatta un’estrazione, quindi addensata col tiglio in un gel. A crudo la liara e l’acetosa. La terra del suolo è ricreata con la polvere di geum urbanum. I colori, invece, coi fiori di malva, papavero, melissa (molto rari) e camomilla (fatti essiccare).
Un dessert particolare
Non è da meno il napoletano Raffaele Lenzi, executive chef del ristorante stellato Berton al Lago all’interno dell’esclusivo resort Il Sereno sul lago di Como, che in un confronto serrato con la propria nutrizionista si spinge ancora più in là, chiudendo il suo menu “Radici, tuberi e vegetali” con quel minestrone di frutta e verdura che spiazza e sorprende una clientela che qui viene da ogni parte del mondo. La pirotecnica composizione annovera una spuma ghiacciata al lemongrass. Un tripudio vegetale con asparagi, taccole, fave, pomodori e una zuppa di piselli e menta. Frutti quali ciliegie, fragoline di bosco, nocciole e mandorle. Erbe come menta glaciale, oxalis, basilico limone e rosso, salvia ananas e finocchietto. E per finire i fiori edibili di timo, tagete, violette e nasturzio.
Elicrisio protagonista nel Gelato da Spiaggia
«Il mio fine dining», sintetizza lo chef Luca Landi, «si struttura a partire da erbe, frutti e fiori che vengono dalla nostra storia. Io cerco d’interpretarli in solitaria. E le caratteristiche che devono emergere sono tanto la freschezza quanto la croccantezza. Di più: è la loro potenza. La mia Insalata in verde delle Apuane ha tante sfaccettature, non solo toni amari; il finocchio marino che cresce sulla spiaggia della Lecciona è dolce e balsamico, la salicornia dà note salate». In un piatto simbolo di questo chef campione internazionale di gelateria, come il Gelato da Spiaggia, l’attore principale diventa l’elicriso, sorta di rosmarino dolce, che qui si sposa con le alghe, il cioccolato e un decotto di lattuga di mare.
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