Dal nostro archivio (1981) | Non faremo andare l’auto con il vino. Però… 

Dal nostro archivio (1981) | Non faremo andare l’auto con il vino. Però… 

Più di 40 anni fa Bruno Donati, storica firma di Civiltà del bere, intervistò il professor Luigi Cavazza dell’Università di Bologna circa la possibilità di utilizzare il vino in eccesso per mischiarlo alla benzina come combustibile. I pro e i contro di un’impresa utopica, ma non del tutto.

Non è una bestemmia, come potrebbe sembrare: il vino in eccesso – in surplus, come si usa dire – può essere trasformato in alcol per autotrazione. In altre parole, possiamo mischiare quest’alcol alla benzina senza modifiche meccaniche fino alla percentuale del dieci per cento. I risparmi sarebbero notevoli, perché si utilizzerebbe un bene senza acquirenti (non dimentichiamo che, dopo due vendemmie abbondanti, e col calo dei consumi, le scorte di vino in Italia sono decine di milioni di ettolitri) e perché si spenderebbero meno soldi per acquisti di petrolio. Un’utopia? Forse no. E ve lo spieghiamo.

La copertina del n. di aprile 1981 di Civiltà del bere dedicata all’opera “Le Muse inquietanti” di Giorgio de Chirico

La ricerca del professor Luigi Cavazza

Quattro anni fa il Consiglio nazionale delle ricerche ha ordinato uno studio a livello universitario sui materiali alternativi al petrolio, sempre più scarso e sempre più costoso. Ha chiesto se dalle eccedenze agricole si potrebbe ricavare alcol puro in modo da ridurre il nostro fabbisogno con i Paesi produttori di greggio. Di queste ricerche si è occupato in prima persona il professor Luigi Cavazza, docente di agronomia generale all’Università di Bologna, professore ordinario dal ’59. E il professor Cavazza ha studiato tutti i prodotti della terra che potrebbero fornire alcol, mele e pere comprese, senza considerare la barbabietola da zucchero che, ancor oggi, è la regina dell’alcol. Lo siamo andati a trovare all’Università. È un uomo simpatico e schivo che, con la moglie Antonia Patruno, docente di fisica del terreno agrario nello stesso ateneo, compie un grosso sforzo di ricerca.

Professore, allora è possibile far andare la nostra “127” a Barbera…

Be’, cominciamo col dire che abbiamo considerato tutte le colture in grado di produrre etanolo. Fra queste, c’è anche la vite. Dal punto di vista organizzativo, le difficoltà sono numerose, ma solo per ragioni di mercato, non tecniche. Ecco, da un punto di vista tecnico, la realizzazione non è affatto impossibile. Abbiamo cominciato i nostri studi con la barbabietola da zucchero: con essa abbiamo ormai superato la fase di ricerca e siamo al lavoro per ottenere i dati tecnici che ancora ci mancano per raggiungere la fase-pilota”. Ad ogni buon conto, una cosa è sicura e positiva: si potrebbe creare un’industria per tutti i surplus, vino compreso, che in questo modo sarebbero facilmente assorbiti. Per semplificare, si comincerebbe ad eliminare il problema dei surplus. Mi spiego meglio: se capitasse un’annata eccezionale per una qualunque coltura, si eviterebbe di schiacciare un prodotto faticato e sudato sotto i trattori per mantenere alto il prezzo di mercato. Tutto potrebbe essere utilizzato. Soltanto con il 5 per cento di surplus ricaveremmo un milione di tonnellate di etanolo.

Ci sembra di capire che, però, ci sono alcune difficoltà

Ci sono, certamente. Ma non solo e non tanto tecniche, ma di natura commerciale. Mi spiego subito: se oggi come oggi facciamo fatica a reprimere determinate frodi, siano anche soltanto lo zuccheraggio dei vini, domani, quando ci troveremo di fronte ad un’uva che deve essere fermentata senza l’aggravio di tasse… a qualcuno potrebbe venire l’idea di sofisticare a tutto spiano. Ci sarebbe un utile gigantesco. Il desiderio di mettere in circolazione il vino pessimo a prezzi elevati potrebbe indurre in tentazione più di qualcuno. I francesi, ad esempio, quando hanno preso in considerazione questa ipotesi, di produrre cioè vini ad esclusivo uso industriale, hanno detto molto chiaramente no. Il vino non si tocca. Ma è un errore: prima si studia serenamente il problema, poi si può anche dire no.

Ma c’è una possibilità per evitare facili frodi?

Direi di sì, ma parlo a titolo personale. Ho conversato a lungo con colleghi specializzati nella coltura dei vigneti e mi sembra che una via d’uscita sia questa: creare vitigni ad alta produzione di vino ma caratterizzati da forte sapore volpino, una specie di vino denaturato in partenza. Ha presente l’alcol denaturato, quello per uso esterno? Ecco, si tratterebbe di qualcosa de genere: sempre alcol, ma con gusto cattivo, orribile. Un vinaccio tale da non poter essere corretto: schifoso e basta. Ma, a dire il vero, oggi non è ancora possibile fare una cosa del genere. Un mio amico, il professor Vitaliano dell’Università di Bari, non sottovaluta il pericolo di una lavorazione del genere. Di più: alla Cee, sezione agricoltura, sono nettamente contrari ad ogni intervento, anche solo di studio. Parlando di queste cose, si riferiscono ad una specie di salto all’indietro, al ritorno ad un’automobile che viaggia col sistema del ric-sciò, a mano, insomma.

E lei, professore, è contrario?

No, io non sono contrario, anche se non sottovaluto il pericolo. Personalmente sarei dell’idea di studiare una coltura a basso costo, che resista alla peronospora (per non spendere denaro in trattamenti), da potare a siepe, con una raccolta meccanica facilitata. Se anche nei grappoli finiscono delle foglie, non ha importanza: non stiamo preparando un vino Doc, tanto per intenderci, ma solo alcol per l’auto.

Si parla della bietola come della migliore coltura alternativa. Lei è d’accordo?

Un vantaggio sicuro l’uva ce l’ha: rispetto alla bietola, che è una coltura annuale, questa è poliennale. Un fatto che coopera ad abbassare il costo di produzione. Ma parliamo anche degli svantaggi, come è giusto in una ricerca scientifica. Finora non si ottengono alte rese di zucchero come si ottengono invece dai vini migliori. E poi sono necessarie alte quote di concimi, azotati, che vogliono forti consumi energetici. Nel caso delle polpe di barbabietola, si ha il vantaggio di un sottoprodotto destinato all’alimentazione del bestiame: questo significa, alla fine dei conti, un considerevole risparmio. Un vero e proprio ciclo completo.

Ecco, facciamo un po’ di conti. Quali sono gli aspetti negativi che non invogliano a produrre alcol dalla vite?

Innanzitutto il costo. L’alcol così prodotto verrebbe a costare dalle due volte e mezzo alle tre volte più che la benzina – al prezzo attuale – senza tasse. Poi non bisogna dimenticare il bilancio energetico; trattori, macchine agricole, distillatori si mangiano il 50 per cento dell’utile. E infine bisogna pensare alle superfici da sottrarre agli usi attuali. Oggi come oggi, solo la bietola permette un sottoprodotto utile. In compenso ci sono voci attive, anche se non ancora completamente studiate. Con la fermentazione, ad esempio, si libera anidride carbonica di ottima qualità, assolutamente senza costo, che potrebbe servire per la coltivazione delle alghe verdi. Su questo fatto sta lavorando a Firenze per conto del Cnr l’Istituto di microbiologia della facoltà d’Agraria alle Cascine. Si potrebbe ridurre il costo d’essicamento: le prospettive ci sono. Una cifra di cui siamo in possesso spiega che per mettere nelle nostre auto il 10 per cento d’alcol, dovremmo disporre di 300 ettari in più a bietola, e questo è certamente un problema.

Insomma, per quanto riguarda la convenienza

Certamente questo tipo di lavoro non è ancora economico. Ma bisognerebbe fare valutazione d’ordine diverso, politico, ad esempio. Intanto, l’alcol è più ecologico della benzina. Poi eliminerebbe tutti i surplus. Nel Sud c’è la possibilità di irrigare vaste zone, ma non sono convenienti le colture ortofrutticole: resterebbero, quindi, solo le colture industriali, e fra queste la vite per alcol e la barbabietola. Il coltivatore sarebbe assicurato da un contratto, e non sarebbe più in balia dei prezzi di mercato. Se poi vogliamo parlare di percentuali, ricordiamo che la benzina rappresenta soltanto il 10 per cento del fabbisogno energetico e che queste fonti alternative offrirebbero l’uno per cento, valore che scenderebbe allo 0,5 per cento parlando di bilancio energetico. Non è poco tuttavia, come ordine di grandezza: è la stessa percentuale di petrolio lavorato in Italia dai tempi di Mattei in poi. Senza poi dimenticare che, oggi, il sole costa di più. E l’alcol è pronto subito, se lo si vuole…

Ci sarebbero però zone particolarmente vocate per questi tipi di coltura alternativa?

Certamente. Se, per fare un esempio, in Sicilia le irrigazioni costano molto, perché si pompa in media da 50 metri di profondità, in Puglia le cose sono molto diverse, perché si irriga per caduta, e quindi senza costi. Ma potremmo esportare la nostra tecnologia in Paesi in cui le superfici sono vaste: tecnologia contro alcol. C’è ancora molto da studiare, ma molto potrebbe essere realizzato presto. Come sempre, si tratta di scelte politiche.

Bruno Donati, caporedattore di Civiltà del bere dagli anni Novanta a inizio Duemila

Foto di apertura: elaborazione grafica © V. Fovi

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© Riproduzione riservata - 22/11/2024

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