Dal nostro archivio (1979) | Grandi firme per Civiltà del bere: Dino Frescobaldi racconta gli effetti della rivoluzione di Khomeini
In questo articolo scritto all’indomani della nascita della repubblica islamica in Iran, il giornalista fiorentino, discendente di una nobile famiglia del vino toscano, ricorda la distruzione coatta di centinaia di migliaia di bottiglie. E si domanda quale sarà il futuro delle opere degli artisti persiani che hanno cantato il vino.
Il drappello dei “guardiani della rivoluzione” arrivò di buon mattino nel grande albergo di Teheran. Indossavano tutti una tenuta paramilitare ed erano vistosamente armati. A uno degli impiegati, che si era fatto avanti, il comandante disse che aveva un ordine preciso da far rispettare. Aggiunse che lo scandalo doveva finire, che la misura era colma e che si imponeva di “moralizzare”. Dal giorno del trionfo della rivoluzione la direzione dell’albergo aveva preso diversi provvedimenti. Uno di questi era stato di svuotare i tre o quattro bar e i piccoli frigoriferi nelle camere e di vietare che in tutto il locale fossero serviti alcolici. Le scorte di Whisky, di Cognac, di vini pregiati e di ogni altro liquore erano finite in un sottosuolo, chiuse a chiave. Evidentemente la direzione sperava che il fatto di togliere dalla vista le bottiglie e di non consentire la messa in vendita dei loro contenuti sarebbe bastato a tener lontani i fulmini di Khomeini e di tutti i campioni dell’integralismo islamico.
Il “fattaccio”
Poi era cominciato un sottile braccio di ferro. Da una parte si voleva far dimenticare che le cantine erano piene. Si trattava di guadagnar del tempo senza ferire la purezza dei sentimenti rivoluzionari; dopotutto Khomeini non sarebbe stato eterno e sarebbero arrivati momenti più “elastici”. Ma dalla parte opposta i rigoristi musulmani si tenevano pronti ad agire in modo inflessibile. A questo punto era accaduto inopinatamente quello che chiameremo il “fattaccio”. Quando erano scoppiati i primi caldi un gruppo di hostesses di una compagnia francese aveva ritenuto che fosse il caso di fare un bagno nella piscina.
Le hostesses viaggiano in continuazione, finiscono col non sapere nemmeno dove sono e certamente non sono obbligate a conoscere le idee dei governi dei Paesi in cui fanno scalo. Per loro il mondo si riduce alle sale degli aeroporti, agli atri degli alberghi e a città attraversate in fretta la mattina con gli occhi pieni di sonno e con ancora il trucco della sera prima. Perciò quando dalle loro camere videro l’acqua della piscina non stettero tanto a pensare di casi dell’Iran e alla sfida che loro comportamento avrebbero lanciato a tutti i mullah e a tutti gli ayatollah. Infilati i bikini, dopo pochi minuti erano nell’acqua o sdraiate sotto il sole. Fu qui che cominciò il bombardamento: insulti, grida minacciose tanto per principiare, ma anche lattine di Coca-Cola vuote contro quei corpi provocatori. Sorprese, le ragazze all’inizio protestarono, ma finirono col darsi alla fuga.
E il provvedimento
Inevitabilmente però si parlò della cosa, i puritani islamici sostenevano che bisognava prendere provvedimenti per evitare che potessero ripetersi simili offese alla morale e, fu tirata in ballo la direzione dell’albergo troppo tollerante e compiacente verso certe forme di corruzione importate dagli altri Paesi e non abbastanza rispettosa del nuovo clima introdotto dalla rivoluzione khomeinista. Tutto finché non saltò fuori la faccenda delle bottiglie chiuse in cantina. Non si trattava di poche bottiglie. Qualcuno calcolò il valore che rappresentavano: un milione di dollari a dir poco. Naturalmente molti pensavano al giorno in cui, passata la sfuriata moralista, si sarebbe potuto iniziare a stapparle. Ma questi non avevano fatti i conti con i “guardiani della rivoluzione”, cioè gli interpreti più rigorosi del pensiero dell’ayatollah.
Per loro il peccato andava sradicato come pure l’occasione di peccare. Il che significava dire che il contenuto delle bottiglie doveva essere versato e disperso in modo che non ci fossero più tentazioni e possibilità di ricadute.
La strage delle bottiglie
Fu per questo che il drappello venne incaricato di dare immediata esecuzione all’ordine di vuotare le bottiglie e di sovrintendere all’operazione. Gli impiegati dell’hotel, che al mattino si trovarono davanti un pugno di uomini decisi con tanto di ordine scritto delle autorità, capirono che ormai c’era ben poco da obiettare e da tergiversare. L’unica riserva che si permisero di fare fu di carattere tecnico. Dissero infatti che le bottiglie erano tante, che l’operazione avrebbe richiesto molto tempo e che c’era bisogno di trovare un posto adeguato dove gettare tutto quel liquido del demonio. Sembra che qualcuno stesse per dire “prezioso liquido”, ma si trattenne a tempo.
Il posto fu trovato e senza bisogno di tanta fatica; la piscina. Sarebbero state aperte le valvole di sfogo e tutto l’alcol sarebbe finito dentro. Così il fatto avrebbe anche assunto il carattere di gesto riparatore e di una specie di autodafè. E la strage ebbe inizio.
Dopo poco la piscina era tutta un ribollire di schiuma. Infatti, nella vana speranza di guadagnare un altro po’ di tempo, c’era stato chi aveva proposto di cominciare l’orrendo sacrificio dal genere meno costoso, cioè dall’infinito numero di bottigliette di birra. Ma poi venne il momento di far passare attraverso lo scarico Whisky e Champagne preziosi, vini d’annata, liquori rari e altri prelibati prodotti da intenditori. Sarà stato per gli effluvi di tutto quell’alcol, sta di fatto che uno zelo feroce e quasi una satanica ebbrezza si erano impossessati dei giustizieri che eseguirono il loro compito fino all’ultimo, facendo bene attenzione a non lasciare nemmeno una sola bottiglia intatta.
L’ambasciatore iraniano a Washington
Qualcosa di molto simile era accaduto all’ambasciata iraniana di Washington e anche questa è una storia emblematica che forse vale la pena di raccontare. Ma prima bisognerà dire chi fosse l’ambasciatore persiano, Ardascir Zahedi, in quanto per molto tempo aveva avuto un ruolo di spicco nella società della capitale americana. Genero dello scià, era stato uno dei tre o quattro più brillanti ambasciatori a Washington. Amava dare grandi feste, a cui partecipavano sovente le dive più celebri, che finivano nelle ore della mattina. Certo poteva permetterselo, ma in ogni caso era molto generoso. Si diceva che per ogni Capodanno distribuisse agli amici regali di uno speciale caviale fatto venire dalla Persia per varie decine di migliaia di dollari. Quando lo scià arrivava in visita in America, Zahedi, oltre a offrire i normali ricevimenti, era solito affittare un teatro intero per una serata. Dopodiché lo riempiva invitando il fior fiore del mondo politico e diplomatico.
Un gesto pubblico
Naturalmente Zahedi non poteva restare in carica dopo la rivoluzione. Lasciò una cantina fornita di ogni ben di Dio. I nuovi titolari si trovarono davanti a un dilemma. I più moderati lanciarono l’idea che, se proprio si doveva rinunciare a consumarlo, tutto quel patrimonio poteva anche essere convenientemente venduto. I più dogmatici respingevano invece il suggerimento di “far soldi col peccato”. Alla fine fu stabilita di lasciare lo stesso Khomeini arbitro della delicata questione, non senza fargli sapere l’ammontare della somma – questa era la carta segreta dei moderati – che l’amministrazione iraniana avrebbe potuto ricavare dalla vendita. Per alcuni giorni ci fu uno scambio serrato di telefonate finché non arrivò la sentenza tassativa dello stesso ayatollah: niente commerci ma, anche in questo caso, un atto purificatore. E apposta perché non ci fossero dubbi sul suo carattere simbolico, l’atto doveva essere compiuto in pubblico. Vennero invitati fotografi e giornalisti. Così il giardino dell’ambasciata, che aveva visto tante feste, fu teatro di una cerimonia che assomigliava più a un’esecuzione capitale. Sotto le cineprese, che spietatamente riprendevano la scena, centinaia di bottiglie furono svuotate ad una ad una in una vasca fino all’ultima goccia.
All’indomani molti giornali americani riportavano la notizia, alcuni meravigliati, altri sbigottiti, infine altri ancora scandalizzati. Eppure si tratta di episodi simbolici e istruttivi, perfettamente in armonia con lo spirito della rivoluzione iraniana. Essi non solo danno un’idea dell’integralismo a cui si spira Khomeini, ma sollevano anche alcuni interrogativi di fondo.
L’arbitrarietà di certe misure
Molti popoli, come quello iraniano che in epoca recente si sono sentiti snaturati da filosofie e da modi di vita venuti da fuori, credono di “ritrovare se stessi” e di “risalire alle radici della loro essenza e della loro cultura” mediante un’applicazione rigida delle regole religiose. Ciò può spiegare l’odierno ritorno perentorio dell’Islam sulla scena internazionale.
Ma una simile premessa è giusta? Quel che sembra incontestabile è che, almeno nel caso iraniano, il fondamentalismo religioso degli ayatollah sciiti e di tutti i loro seguaci contiene anch’esso una forma di violenza esercitata contro un partner importante della cultura del Paese. In uno dei suoi non rari momenti di megalomania, lo scià aveva preteso di riagganciare il proprio impero a quello di Ciro e di Dario di venticinque secoli fa. Però la Persia non è nemmeno nata con la rivoluzione khomeinista e il suo bagaglio culturale non s’identifica col radicalismo del movimento sciita. Di ciò fa fede la grande letteratura che questo popolo ci ha dato in tempi lontani. E appunto questa è la misura del carattere arbitrario di talune misure che il nuovo regime ha introdotto. Esse non vanno solo contro la natura di un popolo ma anche contro la sua cultura.
Poeti e opere dedicate al vino
A questo punto bisogna domandarsi se, dopo che sono state distrutte e abolite le cantine, saranno eliminate dalle scuole, dalle biblioteche, dalle librerie le opere di tutti i poeti persiani che hanno cantato il vino come “nettare degli dei”. Il pensiero corre innanzitutto a Omar Khayam il cui nome per secoli è stato preso a simbolo di amore per la vita e delle gioie terrene dell’esistenza, compresi tutti i piaceri della buona tavola.
Ma Omar Khayam non è il solo. Al centro di Sciraz, la città delle rose non lontana dalla favolosa Persepolis, c’è uno stupendo giardino dove due famosi poeti persiani del quattordicesimo secolo hanno voluto che fossero sistemate le loro tombe. Circondate da aiuole e al riparo di due leggeri tempietti, le due tombe di Hafez e di Saadi sono “allegre” se così si può dire. Conformemente a quella che fu la volontà di chi vi è sepolto, gli innamorati si danno convegno vicino ad esse, i ragazzi vi giocano attorno, mentre studenti e letterati ripetono sovente a alta voce i versi più celebri dei due autori. Come quelli in cui Hafez si rivolge alla donna amata e che sono incisi sul monumento: “Vieni a sederti vicino alla mia tomba e porta vino e musica, sentendo la tua presenza io uscirò dal mio sepolcro, oh divina creatura lascia che contempli la tua bellezza”. Chiuderà Khomeini le tombe dei due poeti di Sciraz? Proibirà alle scolaresche di visitarle?
Il vino è libertà
Sono domande che sorgono spontanee davanti anche ad altre testimonianze di intolleranza e di fanatismo che ci vengono dalla Persia di questi tempi. Fu un poeta scozzese a pronunciare un giorno la frase: “Il Whisky è libertà”. Forse, se si guarda alla piega presa dagli avvenimenti iraniani in molti campi, sarebbe il caso di allargare tale equazione a tutto il vino.
Dino Frescobaldi, giornalista, saggista e produttore di vino (1926-2010)
Foto di apertura: elaborazione grafica © V. Fovi
Tag: archivio storico Civiltà del bere, Dino FrescobaldiPer scaricare l’articolo originale clicca qui
Per leggere tutti gli articoli dell’archivio storico di Civiltà del bere clicca qui
© Riproduzione riservata - 08/11/2024