Dal nostro archivio (1977) | Grandi firme per Civiltà del bere: Sergio Ferrero e il vino dei ricordi

Dal nostro archivio (1977) | Grandi firme per Civiltà del bere: Sergio Ferrero e il vino dei ricordi

In questo articolo lo scrittore torinese Sergio Ferrero ripercorre un incontro avvenuto durante un viaggio in Polonia, in pieno inverno. Lui e un collega trovano rifugio in un villaggio sperduto, presso l’abitazione di una famiglia di umili origini. E una bottiglia di vino italiano riporta alla luce storie lontane.

Qualche anno fa, una domenica pomeriggio in pieno inverno, ero in viaggio con un collega attraverso la Polonia. Avevamo perso tempo alla frontiera, non c’erano troppe speranze che arrivassimo per la notte a Varsavia, non avevamo mangiato dal mattino e le nostre scorte di biscotti erano esaurite. La strada correva fangosa tra due alte sponde di neve, attraversava, ogni tanto, qualche villaggio, non riuscivamo a scovare una trattoria.
Dietro gli antoni sbarrati di porte e finestre, quei villaggi sembravano deserti e le luci delle fattorie isolate nella campagna distesa a perdita d’occhio erano sempre troppo lontane, oltre un mare scoraggiante di neve alta, intatta.

L’ospitalità di una famiglia locale

Era buio ormai da tanto quando la macchina slittò, a una curva, e si incastrò di sbieco tra gli alberi della piazzetta di un borgo. Un solo lampione, alto, disegnava sulla neve un intrico fitto di rami: un’altra lampada, in cima a una breve rampa di scale, illuminava la facciata di una casa imponente, quasi un palazzotto. Apparve, sul portoncino, un uomo che scese ad aiutarci a liberare la macchina. Parlava qualche parola di tedesco: non c’erano trattorie, in paese, e ci invitò a entrare da lui. Un po’ curvo, benché fosse ancora giovane e vigoroso, era, sorprendentemente, in maniche di camicia: un contadino, forse, con la testa quasi rasata e la faccia e le mani scure.
In capo alla scaletta, da un andito buio, ci guidò a una stanza grande, in cui stavano, attorno a una stufa alta, di cotto, tre donne mature, un altro uomo, forse un suo fratello minore, e una quantità di bambini che giocavano su due letti accostati: tra i ripiani della stufa le loro scarpe erano disposte in fila ad asciugare.
Tutti ci guardavano, sorpresi per un momento solo, poi subito cordiali. L’uomo spiegava qualcosa e i bambini incominciarono a ripetere “italiani, italiani…”; le donne ci invitarono ad accostarci alla stufa e andarono a prendere del latte, delle uova, delle patate lesse.

Chiacchiere e cibo per rifocillarsi

Eravamo ancora distanti da Varsavia, si ingegnava a spiegarci l’uomo e intanto il fratello e le donne avevano l’aria di chiedergli altre notizie, di noi, che lui rimandava con gesti bonari; ci lasciassero, prima, mangiare. Ma cedeva, anche, alle loro insistenze; di dove venivamo? E suggeriva: “Roma?” “Venezia?”.
Comparve una ragazzina, con un barattolo di cetrioli; una delle donne portò due mele su un piatto. L’uomo più giovane ci incoraggiava a servirci e ora anche le donne cercavano di spiegarci qualcosa in polacco, visto che l’uomo non sembrava più disposto a fare da interprete. Si decise infine a dirci che c’era qualcuno, in casa, che parlava italiano.
Non era chiaro, ma sembrava che lo chiamasse “padrone”, alzando la faccia come a guardare di fronte a sé qualcuno di cui fosse insieme ammirato e perplesso. Durante la guerra, credemmo di capire, qualcuno della casa, forse il padrone, era stato in Italia e parlava italiano. Ma l’uomo scuoteva anche la testa e si passava una mano sulla faccia, come addolorato: così sospettammo che il personaggio in questione fosse morto o partito lontano. Gli altri, intorno, annuivano seri: soltanto i bambini avevano ripreso a ridere, a saltare e si abbracciavano, si lasciavano cadere riversi sui letti, sinché non intervennero le donne a farli tacere. Nel silenzio che seguì si sentì aprire la porta e venne, dall’andito buio, un soffio gelato.

L’arrivo di un anziano nella stanza

Era entrato un vecchio, altissimo, con una palandrana, un berretto di pelliccia e un bastone, come arrivasse da fuori, ma ai piedi aveva delle vecchie pantofole, perfettamente asciutte. Le donne si scostarono, gli uomini si alzarono, tutti e due, a cedergli il posto sulle sedie impagliate; spiegarono insieme, zelanti, che eravamo italiani.
Il vecchio ci guardò appena, non rispose quasi al nostro saluto, sedette con le spalle alla stufa, impettito, le mani bianchissime, già un po’ azzurrine, sul manico del bastone. I bambini non osavano più fiatare, le donne, in piedi contro la parete, guardavano i loro uomini. Eravamo degli italiani, tornò a dire il più giovane, e tacque anche lui, impacciato.
Parlava italiano…tedesco…francese…? Chiese inutilmente al vecchio il mio collega.
Io, che non sapevo come uscire da quell’impaccio, mi ricordai di tre bottiglie che un amico ci aveva date, al momento della partenza, e uscii a cercarle, nella confusione dei bagagli.

La bottiglia di vino italiano

L’uomo, che mi aveva seguito con una torcia, sorrise e si schermì, quando gliele offrii. Le prese, infine, ma mi aspettavo che, una volta in casa, le passasse al vecchio. Parlò invece alle donne che portarono da un’altra stanza un vassoio con tanti bicchieri scompagnati. Il mio collega li riempì, ne offrì uno al vecchio che accettò subito; gli altri, che erano stati ad aspettare le sue reazioni, afferrarono i loro e li alzarono a brindare, in una confusione di commenti.
L’uomo che ci aveva accolti, intinto un dito nel vino, ne sfiorava le labbra dei bambini che, in piedi davanti a lui sul bordo dei letti, commentavano quell’assaggio con grandi esclamazioni e ricominciavano a ridere, a saltare, come ne fossero subito ubriachi.
Era vino italiano, mi chinai a dire al vecchio che beveva in silenzio vicino a me. Vino italiano, ripetei invano. Dovevamo aver frainteso: per maestoso che fosse il suo aspetto e palese il rispetto che lo circondava, non poteva essere lui, il padrone di cui ci avevano parlato, che era stato in Italia e forse parlava la nostra lingua. Era, oltre tutto, troppo vecchio per aver partecipato alla guerra e doveva essere malato di mente, o almeno un po’ svanito.

La “filastrocca” di parole in italiano

A riempirgli da capo il bicchiere si avvicinò la ragazzina di prima che si rivolse anche a me con un accenno di inchino ed era così graziosa, in quel gesto, che alzai la mano ad accarezzarle la guancia: “Bella – commentai, rivolto al vecchio, e quasi senza volerlo mi ritrovai ad aggiungere – bionda…”
“Bionda bella, bionda bella …” Ripetè anche lui, con una voce piccola, remota.
Subito si fece silenzio. I nostri ospiti guardavano soddisfatti me e il mio collega che si fece avanti, col bicchiere in mano, a tentare di nuovo:
“Allora, parla italiano…”
“Parla italiano…” Gli fece eco il vecchio, che aggiunse, sorridendo: – gverra…”. La voce sottile, appena tesa da uno sforzo, continuo, di fila: – gverra, rancio, bambino, isonzo, vino, acva, milano, torino, ghenerale, permesso, verona…”
I bambini gli si affollarono intorno, ad ascoltarlo, beati, come si trattasse di un giuoco che conoscevano bene. I grandi controllavano le nostre reazioni.
“Quando è stato in Italia? – tentò subito il mio collega: – quando ha imparato l’italiano?”
Il vecchio non lo ascoltava. Seguitava la sua filastrocca con tante altre parole, a volte incomprensibili, deformate per sempre dal tempo, dalla pronuncia, dai vuoti della memoria.

La protagonista della storia

Tornai ad accostargli la ragazzina che costrinsi a chinare un poco la testa:
Bionda bella…” Dissi di nuovo, passandole una mano tra i capelli lievissimi e lunghi.
“Bionda bella!” Ripetè lui, e sorrise ancora per un momento.
Era una storia che conoscevo bene, perché mia madre me l’aveva raccontata tante volte, e poco dopo, in corsa sulla strada nera e lucida nella luce dei fari, tra le alte banchine di neve, provai a raccontarla al mio compagno di viaggio.
Per incominciare, c’era una ragazza, quasi ancora una bambina, bionda, bellissima, in una cittadina del Piemonte, negli anni della prima Guerra Mondiale. Erano arrivati, in città, dei soldati stranieri, polacchi, che erano stati confinati in un primo tempo nel recinto di una caserma, poi avevano incominciato a girare per le strade, guardati con sospetto, quasi con timore, benché fossero gentili, timidi, subito sorridenti.
Un pomeriggio d’inverno, già a buio, la ragazzina si era trovata a camminare insolitamente sola, sotto i portici quasi deserti della via principale, e un polacco, un giovane ufficiale, aveva preso a seguirla. Lei camminava in fretta, un po’ spaventata, soprattutto di averlo guardato un attimo di più, quando si erano incrociati, perché, ricordava sempre, dopo tanti anni, “era bellissimo, con degli occhi un po’ spiritati, ma bellissimo…”
Svoltando in una via secondaria, aveva sentito i passi seguirla ancora, costanti, e invano aveva accelerato, imboccato, a caso, un’altra strada, ormai spaventata com’era. I passi non la lasciavano. Si era, a un certo punto, messa proprio a correre, ma i passi l’incalzavano sempre. E quando, ormai in pianto, aveva osato voltarsi, aveva visto che l’uomo, sempre più vicino, le faceva dei segni. Si era accorta, in quello stesso momento, di essere capitata in una viuzza cieca. Le spalle al muro, non le restava che affrontare il suo inseguitore. Che le fu vicino in un lampo e sorrideva, scuoteva la testa. Poi alzò una mano, le sfiorò il viso bagnato di lagrime, i capelli:
“Bionda Bella – disse con sforzo, Bionda bella!”

Una storia da raccontare

E si voltò e si allontanò a grandi passi.
La storia era tutta lì, in quelle innocenti parole, così curiosamente disposte, che mi erano rimaste in mente da sempre, e il mio compagno, che mi aveva ascoltato con curiosità, non poté fare a meno di protestare, alla fine: ”E tu adesso mi diresti che il vecchio era lui, il polacco di tua madre, proprio lui…”
“Certo che no. No di certo.” Fui costretto a rassicurarlo. Ed era sincero, nel dargli ragione, perché so bene che casi simili, nella vita, non possono accadere, sono troppo straordinari, addirittura impossibili.
Ma era – mi riproposi in quel momento stesso – una storia che volevo proprio raccontare.

Sergio Ferrero (1926-2008), scrittore italiano finalista al Premio Strega nel 1971

Foto di apertura: elaborazione grafica © V. Fovi

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