Dal nostro archivio (1974): La bella époque affronta il problema del wine pairing

Dal nostro archivio (1974): La bella époque affronta il problema del wine pairing

Sul quarto e quinto numero di Civiltà del bere si affronta il tema del “Mangiare bene e bere giusto”. Nella seconda e ultima puntata della serie viene ricordato Urbano Dubois, il primo autore ad aprire, sul finire dell’Ottocento, un discorso serio sui vini. L’abbinamento dello Champagne con l’arrosto resisterà però fino al 1904.

Come si beveva a tavola nella seconda metà dell’Ottocento? Una testimonianza, si diceva, ci è rimasta in un libro del milanese dottor Giovanni Rajberti, L’Arte di Convitare. Ebbene, a leggerla oggi, L’Arte è un libro abbastanza noioso e senz’altro sgradevole, per quelle continue critiche fatte dall’autore a quanti hanno avuto la pessima idea di invitarlo a cena. Non gliene va bene una: né le vivande, né i discorsi, né gli abiti di maschi e femmine. Questa specie di contestazione si estende, si capisce, anche al vino. Rajberti anticipa le manie di quanti vedono un tradimento in ogni bottiglia di marca: secondo lui, si dovrebbe servire, per tutta la durata del simposio (la parola gli piaceva) il vino “nostrale, di botte, il cosiddetto vino da tavola o pasteggiabile, fondamento del bere savio e ponderato”.
Un vino “saporito, leggero e trasparente, legittimo e onesto, di cui la Lombardia abbonda quasi dappertutto”. Ottimista, il Rajbetri: o almeno fortunato, perché oggi un vino siffatto, fra Ticino e Oglio, è da chiedersi chi lo trova.

wine pairing
La copertina del 5° numero di Civiltà del bere, dedicata all’attore Ugo Tognazzi

Giovanni Rajberti e la sua visione dei vini di Bordeaux

Rajberti però ha il suo debole: i bordò (lui scrive così). Scartato lo sciampagna, vino “dei lazzi e delle smorfie” resta il Bordeaux, “re dei vini, vino dei re” (sta a vedere come se la prendono i piemontesi, per i quali lo slogan va al Barolo) in quanto è un vino “saporito, leggero, molle, passante, che è quanto dire pasteggiabile per eccellenza…”. È per lo meno divertente sentir definire con tali parole i grandi crus borgognoni, per i quali si possono usare molte parole di lode, ma non certo quelle cui ricorre il medico. Cosa notevole, lui stesso precisa a quali Bordeaux si riferisce: Sauterne, Lafitte (lui lo scrive con due t…) e Chateau Margaux. Cosa ci trovasse di leggero e molle in quei vini, Dio solo lo sa.

I francesi Escoffier e Gouffé snobbano le questioni enologiche

Intanto, mentre il secolo XIX si avvia alla fine, un nuovo fenomeno sociale si delinea: il turismo di élite, preludio a quello di massa. Anche questo influirà, come vedremo, sugli orientamenti di un pubblico, sempre più vasto, in materia di scelta dei vini, considerata una componente della felicità fuori casa.
Eppure George August Escoffier, il riordinatore e il codificatore della grande cuisine des palaces di cui egli è con Cesare Ritz, uno dei creatori, non si occupa – lo abbiamo visto nella prima puntata di questa breve indagine – del problema degli abbinamenti cibi-vini. Poiché, praticamente nel suo stesso periodo (anche se il libro risale al 1867) un altro “grande”, Jules Gouffé, ignora la questione, potremmo arrivare a concludere che l’argomento non interessa nessuno, se, finalmente, non trovassimo un trattato in cui non solo si affronta il problema, ma si giunge quasi alle “nostre” conclusioni, quelle ritenute ancora valide dal gastronomo educato.

Urban Dubois, una figura ingiustamente considerata secondaria

L’autore è Urban Dubois, il testo figura nel capitolo introduttivo della École des cuisiniers, pubblicata da Dentu sul finire del secolo (l’edizione da me posseduta è la dodicesima, del 1904: Vicaire cita la sesta, del 1887). Grave ingiustizia: mentre di altri chefs-autori si possiedono biografie, riprese e riportate in diverse storie della cucina, di Urban Dubois non mi è stato possibile trovare indicazioni complete. Sappiamo solo che, dopo aver lavorato in casa Rotschild, e da due principi russi, nel 1869 era primo capo di cucina del re di Prussia, e rimase tale per decenni, anche dopo Sédan e la caduta del Secondo Impero. Fra il 1883 e il 1890, durante le ferie a Monte Carlo, conobbe Escoffier, allora al Grand Hotel e gli suggerì di cominciare a raccogliere, in un volume, le sue ricette “rinnovate”.
Poi, di Urban Dubois, si perde ogni traccia: restano le sue opere, sei titoli, ristampati più volte, sempre con aggiunte e varianti: a capofila, la monumentale Cuisine classique, circa mille pagine, con decine di plances fuori testo.

Varietà e tipologie immancabili in un pranzo “serio”

L’École des cuisiniers è, in un certo senso, un libro “minore”, indugia più sui suggerimenti pratici – pagine e pagine per spiegare come si passa un composto al setaccio normale e “cinese”, o all’étamine di tela, garza o reticella minuta – anziché sulla composizione delle ricette. Forse per questo, a pagina 7 della introduzione, Dubois sente la necessità di aprire il discorso sui vini. E lo fa, per noi, nel modo più convincente. Nei pranzi seri, ben ordinati – egli scrive – i vini di lusso debbono essere variati, ma senza eccessi: è soprattutto la loro bontà e la loro finezza che deve farli brillare. Tuttavia sarebbe pericoloso che l’assortimento fosse insufficiente, perché un gourmet considererebbe incompleto un banchetto in cui non venissero serviti:

  • del Madera secco con la minestra;
  • dei bianchi con il pesce;
  • dei Bordeaux o dei Borgogna rossi con i “rilievi” e le “entrate”;
  • lo Champagne con gli arrosti:
  • infine, un vino liquoroso con il dessert.

L’attenzione alle temperature e all’ordine di servizio

Dubois indica anche le temperature di servizio: freschi i bianchi (freddi Reno e Mosella); “ambiente”, ossia circa 15 gradi per i rossi e i liquorosi da dessert; frappé, senza però esagerare col ghiaccio frammisto a sale, lo champagne.
Chi ricorda quanto si è detto a proposito del Cuisinier royal, trova, nella “progressiva” di Urban Dubois, il punto di contatto fra i gusti di un tempo, e i nostri attuali. Della vecchia formula restano ancora il Madera con i potages e lo champagne assieme all’arrosto: ma si è messo ordine nel resto, stabilendo il passaggio dai bianchi ai rossi, senza possibilità di “marcia indietro”. Nei menù-esempio dell’Ecole, in alcuni casi l’ordine dei piatti esclude anche tale retrocessione per quanto riguarda lo champagne: si indica fra l’altro, un Pouilly con la maionese di filetti di sogliola e le quenelles di pollo, seguito da un arrosto di cacciagione con lo champagne, e da un Saint Estephe con il timballo di tartufi. Certo, l’impasse del vino spumante con gli arrosti ci sembra insanabile.

I menu di prestigio

Però, considerando quanto gli altri trascurano, o indicano (torniamo a dirlo, Escoffier stesso pianifica un menu di 14 piatti con un Johannesberg e lo champagne, e niente altro) dobbiamo ammettere di esser di fronte a una rivelazione.
Il buon seme dà frutti. Nel 1904, l’editore Nilsson di Parigi riprende la pubblicazione di quell’Almanach des gourmands che, un secolo prima, aveva dato fama a Grimod de la Reynière. Il libro, in veste di lusso, contiene un po’ di tutto, dai pezzi “di colore” alla pubblicità, dalle liste dei grandi ristoranti (interessantissime, specie per i prezzi: da Paillard, alla Chaussée d’Antin, una porzione di pollo costava otto franchi, una di aragosta con riso pilaf e salsa di gamberi, appena tre: miracoli degli allevamenti attuali…) a qualche menù di prestigio. Fra questi, uno, molto notevole, di un pranzo di caccia servito a Rambouillet, ossia nella palazzina della riserva del presidente della Repubblica, agli invitati (probabilmente, i membri del corpo diplomatico; le “battute” avevano il carattere di azioni di public relations).

Gli abbinamenti con i vini ultra invecchiati

Finalmente – l’anno di pubblicazione dell’Almanacco, ripetiamolo, è il 1904 – vediamo sparire l’incongruenza dello champagne con l’arrosto: le pernici vanno in tavola con un Chateau Lafite del 1875. Le hanno precedute gli antipasti (ostriche, caviale, salmone affumicato, prosciutto) affiancati a Johannesberg del 1811 (addirittura!) e da Porto Solera 1852, le uova pochées con il Chateau d’Yquem 1874, la sella di capriolo e le cotolette di pollo con un Bordeaux (Cos d’Estournel) del 1878: e seguono l’arrosto, il foie gras e l’insalata di tartufi accompagnata da uno Chambertin del 1858. Con il dessert (gelati e crepes all’arancio) arriva un Veuve Cliquot del 1884.
La cosa per noi inspiegabile, di questo menù, è la longevità dei vini: trent’anni di media, quasi un secolo per lo Johannesberg, vent’anni per lo Champagne. Potrebbe darsi che il menu fosse di qualche anno precedente a quello della pubblicazione (ma l’editore non lo dice). A confermare, indirettamente, come allora si vendessero, vini molto invecchiati, ci sono anche le pagine di pubblicità dello stesso almanacco: si offrono, senza esaltarne l’anzianità, dei Saint Emilion del 1893, in barili o in casse da 50 bottiglie.

L’austerità degli anni fra le due Guerre

Gli anni che seguono non riservano grandi sorprese, specie in quel periodo, compreso fra le due guerre mondiali, in cui la cucina, da noi e oltre frontiera, disperde gran parte dei suoi valori di “comunicazione sociale”: neppure le occasioni solenni valgono per realizzare menù d’eccezione.
Nel gennaio del 1930, Umberto di Savoia si unisce in matrimonio con Maria José di Brabante, figlia del re dei Belgi. Un tempo, anche soltanto un secolo prima, sarebbe stata occasione d’oro per banchetti solenni come pontificali: a Roma, tutto si risolve con un “consumato” alla primaverile, spigole con salsa di gamberi, pollastre (definite “di Modena”; una appellation insolita) arrosto, budino alla scozzese e grissino col formaggio. Tre vini: una Torre Giulia Pavoncelli, Chianti Ruffino, e, omaggio alla sorgente autarchia, Gran Spumante Buzzi invece di champagne. In occasione del mariage di Elena di Montenegro col principe di Napoli, Eduardo Scarfoglio aveva scandalizzato i ben pensanti con l’articolo “Le nozze coi fichi secchi”: anche per Umberto, principe di Piemonte, non ci si era allontanati dalla formula.

Gli anni  ’50-70 sono di grande incertezza e confusione

Il resto è troppo vicino, a noi, perché occorra insistere. Negli ultimi vent’anni, soprattutto, si sono viste nascere teorie personali, regole considerate auree, principi definiti inderogabili, smentiti o modificati, molte volte, nel giro di poche stagioni. Persino una enunciazione, a prima vista eccellente, viene messa in dubbio: quella dei “piatti della regione con vini dello stesso territorio”, e questo non solo per la Lombardia, ove il San Colombano è ormai un mito, e i Valtellina non sono certo dei passe-partout, ma anche per la Toscana e il Meridione. Certi piatti – il baccalà, i dolci al cioccolato e alla menta – creano, fra gli esperti, addirittura delle crisi di incertezza.

Niente vino con pasta, pizza e piatti che prevedono l’aceto

Non parliamo poi della pasta asciutta, che rifiuterebbe, secondo i “meridionalisti”, ogni vino (nel 1839, Alexandre Dumas lo testimonia, la piccola nobiltà napoletana si nutriva di vermicelli e asprino: solo i lazzari, per mancanza di soldi, erano fedeli all’abbinamento con l’acqua). Idem per la pizza, “coniugabile”, secondo altri, unicamente con la birra. Altro motivo di divergenze d’opinioni: tutti i piatti che comportano impiego di aceto – d’accordo per le insalate crude – o di limone, o comunque salse acide o troppo piccanti. A rispettare queste regole, escludendo la dive bouteille, come la chiamava Rabelais, dalla tavola, tutte le volte che arriva un piatto tabù, ci sarebbe, fra l’altro, il rischio di far la figura, con gli ospiti, dello spilorcio. E non dimentichiamo la “guerra” contro lo champagne al dessert (personalmente non lo ammetto, ma capisco come altri si sentano felici di poter concludere “in ricchezza” con la bottiglia più costosa della lista).

Nulla è immutabile, nemmeno gli abbinamenti

Prendiamo nota di un elemento positivo: tutto questo porta a cercar di conoscere meglio i vini, le loro virtù palesi e occulte, la possibilità di matrimoni che, appunto come tali, possono dimostrarsi riusciti o meno, anche a seconda delle circostanze o di quanto il cuoco ha messo di suo – il “segreto” – nelle ricette originali. Evidentemente, un buon vino non può valorizzare una vivanda mediocre, o viceversa: sebbene il vino possieda una personalità tale da consolarci, facendo dimenticare, con il suo bouquet, le malefatte del cuoco (fra l’altro, è più facile lasciare la roba nel piatto pieno, anziché il vino nel bicchiere).
Per il resto, stiamo a sentire il sommelier, ricordando però che nessun abbinamento è immutabile, nel tempo e nelle abitudini. Consideravamo con ironia, anni addietro, un grosso produttore di salumi, per il quale il “suo” zampone doveva andar servito solo con il Dom Pérignon. A cercar bene, si potrebbero trovare, probabilmente, dei precedenti storici anche per questo connubio.

Massimo Alberini, giornalista e critico gastronomico 

Foto di apertura: elaborazione grafica © V. Fovi del disegno di © Carlo Jacono

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© Riproduzione riservata - 01/03/2024

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