Dal nostro archivio (1974). Il linguista in cantina: il vino è come la mamma
Sul n. 4 di Civiltà del bere, il giornalista Mauro Magni indaga la radice della parola vino, che è presente in gran parte delle lingue del mondo, antiche e moderne. Non meno affascinante è il significato del termine vendemmia, che nei paesi del Mediterraneo assume un valore sociale e comunitario.
Il vino è come la mamma. Affermazione un po’ audace e strana, d’accordo, ma del tutto legittima in riferimento a un fatto di civiltà e di costume, rapportato ai fenomeni linguistici. Mi spiego. In moltissime lingue del mondo, vive o morte, troviamo la parola “mamma” (o voci molto simili, come per esempio il francese “maman”); lo stesso vale per “madre” (mater, mère, mother, mutter, eccetera). Insomma la radice MA con le possibili varianti fa parte della storia dell’uomo attraverso i millenni.
Una radice antica e comune
Ebbene, per la radice della parola ”vino” accade la stessa cosa: a riprova, se ce ne fosse bisogno o qualcuno ne dubitasse, che il vino è antico come la civiltà dell’uomo. E le dispute più o meno dotte sulla differenza tra uomo e animali – stabilito che non è affatto vero che solo l’uomo pensa o parla o ride o piange – potrebbero scherzosamente ma non troppo sfociare nell’affermazione che solo l’uomo prepara, beve, gusta e apprezza quel delizioso “alimento“ che è il vino.
Il Mediterraneo come culla
Dunque si perde nella notte dei tempi la radice MA, e altrettanto indietro nei tempi occorre risalire per trovare la radice WEIN che, affermano oggi gli studiosi, è tipicamente Mediterranea (e di che area storico-geografica avrebbe potuto essere?). Questi studiosi scientifici che rifiutano le ipotesi dei linguisti ottocenteschi, spesso fantasiose e poetiche ma talvolta prive di fondamento, o comunque valide solo come ipotesi non dimostrabili, limitano dunque la radice WEIN all’area mediterranea, che ad ogni modo è tutt’altro che piccola: tanto più che, come vedremo, le parole connesse a questa radice dell’area del Mare Nostrum si diffondono per tutto l’orbe terracqueo.
Il collegamento a Venere e alla piacevolezza
Per curiosità possiamo comunque annotare, di passaggio, che se non si può dimostrare la verità di certe affermazioni non si può nemmeno dimostrarne la falsità; andiamoci piano dunque col ripudiare le supposizioni di studiosi del secolo scorso, che vedevano la radice mediterranea WEIN connessa alla radice sanscrita VENAS, che indicava l’idea di amabile, delizioso, piacevole; da cui niente meno che Venere, che i soliti pessimisti uniscono a Bacco e tabacco quale rovina dell’uomo; ma sbagliano, almeno per Bacco e Venere. Certo, ci vuole un po’ di misura; perché a berne troppa fa male anche l’acqua pura, come diceva quel tale che in tempi pre-inquinamento stava per annegare in un laghetto alpino azzurrissimo e gelido. Imparentate con la radice sanscrita sarebbero addirittura anche la voce ebraica IIN è quella armenica GINI.
Dal greco al latino, oinos e vinum
Ma non divaghiamo; e restiamo nel Mediterraneo e dintorni, che può bastare. Dunque i greci, che avevano una consonante simile alla nostra V, la pronunciavano all’inizio di parola come un soffio, e a un certo punto trascurarono di riprodurla come segno a sé stante, limitandosi a porre il cosiddetto “spirito aspro” sulla vocale che, eliminata la consonante primitiva, veniva a trovarsi all’inizio del vocabolo: così dalla radice WEIN trassero WOINOS →OINOS. Il vocabolo Greco oinos che è appunto Il vino, lo ritroviamo in tutti i composti dotti (ma non nei derivati popolari, dove ritorna “vino”, o meglio vinum latino) composti nei quali il vino abbia parte in un modo o nell’altro: ecco così – di fronte a vinaio, vinello, vinicolo – enoteca, enologo, enologico, enometro, enopolio, enòfobo (e a chi odia o disprezza il vino, beh, gli sta bene una così brutta parola che assomiglia tanto a xenofobio).
La diffusione in Europa e nel resto del mondo
Il vinum dei romani discende, dolcissimo e confortante attraverso i secoli, per tutte le contrade d’Europa e del mondo. Se amiamo il buon vino, e molto meno le lingue straniere, non ci sarà difficile farci capire in qualunque parte del globo, salvo poche eccezioni. Pensate: in Francia vin, in Germania wein, in Gran Bretagna in America wine, in Spagna vino; e non c’è da stupirsi, poiché siamo in paesi che usano lingue o schiettamente indoeuropee o anglosassoni, le quali, si sa, hanno copiato molti vocaboli dai popoli neolatini con i quali sono stati per secoli a stretto contatto. Ma se capitate a Mosca senza conoscere una sola parola di russo, non preoccupatevi; al ristorante potrà essere difficile ordinare da mangiare, ma per il bere, non ci sono problemi: in russo vino si dice vino, anche se la scritta in alfabeto cirillico lo mimetizza così: BИHO.
Il valore sociale della vendemmia
Dicono che un tale, dedito al bere, vedendo, in tempo di vendemmia, un ragazzo che mangiava soddisfatto un grappolo d’uva esclamasse: “Dio, ma cosa fai ?!… non vedi che butti via almeno un mezzo litro?!”. In questa affermazione – che oggi potremmo ritrovare in bocca a Gino Bramieri quando veste i panni del personaggio radiofonico di Gustavino Bevilacqua – c’è una grande verità linguistica o più precisamente etimologica. Infatti cos’è la vendemmia? È, tal quale, dal latino vindemia, l’atto del vinumdemere, vindemere ossia: portar via, cogliere, raccogliere (dèmere) il vino, ossia l’uva destinata a trasformarsi in vino. Dunque in tempo di vindemia ossia di vendemmia il mangiar uva parrebbe fuori posto.
A parte il fatto, direbbe chi se ne intende, che l’uva da pasto è diversa da quella destinata alla vinificazione. I popoli mediterranei fanno da sempre – e non a torto – della vendemmia una festa: perché se la raccolta dell’uva è fatica, questa fatica è confortata dal pensiero che dall’uva attraverso il vino verrà all’uomo felicità, serenità, vigore. Festa dunque la vendemmia per gli italiani, la vendange per i francesi, la vendimia per gli spagnoli. Gioiosa fatica che i tre popoli hanno spesso accompagnato con canti, sagre, fiere, ballate.
Per gli inglesi è soprattutto una questione tecnica
I britanni, beh, loro non hanno il sole del Mediterraneo e nemmeno hanno i vini pregiati che si producono in Italia, in Francia, in Spagna.
Loro il vino buono lo importano e lo sanno anche apprezzare; e s’accontentano di essere maestri nella distillazione del whisky. Per loro la vendemmia non è e non può essere una festa popolare, è un fatto tecnico; e la parola vintage che hanno preso quasi di peso dal francese, non credo la si possa ritrovare in canzoni e poesie; piuttosto la usano spesso come primo componente di “vintage-wine“, termine che definisce il vino di pregio eccezionale, fatto con uve scelte in un’annata di raccolto particolarmente buono, e conservato come esemplare di quella annata. Io sono uno studioso – a tempo perso – di problemi di lingua, non un esperto di vini italiani e stranieri, anche se il buon vino l’apprezzo, ma credo proprio che i nostri parenti del MEC usino assai di rado o forse mai l’espressione vintage-wine a proposito di bottiglie con vino produced and bottled in England.
Mauro Magni
Foto di apertura: elaborazione grafica © V. Fovi
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© Riproduzione riservata - 02/02/2024