Dal nostro archivio (1974) | Grandi scrittori per Civiltà del bere: “Era Refosco”. Parola di Piero Chiara
Sfogliando i vecchi numeri della rivista, ci siamo imbattuti in una serie di servizi firmati da importanti scrittori dell’epoca, che vi riproponiamo anche per il loro valore letterario. In questo articolo il celebre romanziere luinese racconta un episodio della sua gioventù all’Osteria del Moro, in un paesino del Carso.
Ho cominciato a bere, civilmente, cioè non per sete o per ingordigia, verso i vent’anni, in un paese del Carso, oggi oltre frontiera: Aidussina, dov’ero finito nel 1932 in seguito ad una quantità di casi che non è qui luogo a riferire.
Stavo, in quei tempi, a pensione dalla vedova Bucovic, una slovena, padrona dell’Osteria del Moro, detta anche Osteria del Buco in ricordo del povero signor Bucovic che aveva condotto per molti anni la locanda, la migliore del luogo, essendo le altre delle bettole frequentate da contadini, mendicanti e qualche operaio di quella sparuta e povera popolazione sulla quale si era stesa, con tutta la stoltizia fascista e nazionalistica dell’epoca, la dominazione italiana.
Pranzando in un luogo di confine
Nell’osteria della vedova Bucovic, dove serviva una ragazzona di nome Anica, pranzavano tutti i funzionari di Aidussina, che era capoluogo di mandamento e quindi sede di Pretura, Ufficio del Registro, delle Imposte e degli altri uffici che lo Stato non manca mai di aprire per la gioia dei suoi amministrati. La maggior parte dei funzionari erano scapoli, ma anche gli ammogliati si erano guardati bene dal portare la moglie in quel luogo di confine, dove nessuno contava d’impiantarsi definitivamente o anche solo per qualche anno. Dirò, anzi, che il luogo era ritenuto sede di punizione per funzionari indisciplinati o manchevoli e risultava quindi deputato ad accogliere la feccia d’ogni amministrazione.
Fiumi di vino locale
Di quella sorta di dipendenti dello Stato era quindi formata la table d’hôte dell’Osteria, otto o nove tipi di diversissima origine, meridionali, friulani, triestini, un emiliano, un lombardo e un istriano. Ammesso a quella tavola, dove il vino d’Orsera, il Refosco, il Ribolla, il Picolit, e il Verduz, allora certamente non sofisticati, erano l’anima, cominciai ad assuefarmi al sapore del vino, che fino ad allora m’era sempre parso sgradevole.
Fra discussioni e dispute che facevano tremare la tavola dalle sette di sera alla mezzanotte, prima durante la mangiata giornaliera di selvaggina, maiale o pesce che veniva da Trieste, poi durante il lungo strascico che ci permetteva di andar a dormire il più tardi possibile nelle nostre gelide stanze, il vino correva come un fiume.
L’Anica e Giovanni Nasturzio Palateo. Personaggi da romanzo
L’Anica andava e veniva con le misure colme, scansando pacche sul sedere e palpate di fianchi, alle quali qualche volta reagiva con duri manrovesci, pur di tutelare il suo capitale di carne, destinato a pervenire intatto e non macerato dalle palpazioni, a un giovane del suo paese, che al momento serviva nel corpo dei Corazzieri a Roma, essendo un colosso di due metri e con le spalle cosi larghe da sembrare un crocefisso, come si poteva vedere da una sua fotografia in grande uniforme, che la Anica mostrava qualche volta, nelle ore del mezzogiorno, quando la tavola era più calma.
Giovanni Nasturzio Palateo, il direttore dell’Ufficio Imposte, era per la sua anzianità e mordacità di lingua il presidente riconosciuto della nostra tavolata. Uomo mostruoso, piccolo, simile a uno gnomo, sovrastava tutti per l’intelligenza e l’esperienza che aveva del mondo. Era lui che comandava il vino, alternando il Picolit al Refosco e ordinando la comparsa in tavola delle diverse qualità e annate. Beveva in un pitale da due litri che era il segno della sua preminenza, consentendo la tazza di coccio a tre o quattro anziani e obbligando al bicchiere normale gli ultimi venuti e i principianti, dei quali temeva l’ubriachezza, che era, secondo lui, appena tollerabile nei vecchi e sommamente deprecabile nei giovani.Sotto la sua guida, e pescando col mio bicchierotto nel suo pitale, cominciai a distinguere il Refosco dal Tocai, il Sauvignon dal Ribolla, e gli altri vini, bianchi o neri che fossero.
Una storia d’amore rivelata dalla morte e dal vino
Giovanni Nasturzio Palateo, ormai cinquantenne, che si dichiarava apertamente omosessuale incancrenito, era, nascostamente, l’amante della diciottenne e intoccabile Anica. E la rivelazione dell’incredibile connubio si ebbe, purtroppo, una mattina di domenica, in cui il Palateo morì nella camera della servente, nudo come un verme nel freddo del locale, che era senza riscaldamento. Fui chiamato dall’Anica, insieme a un tal Condurezza, direttore della Cassa Malattie, che dormiva nella camera accanto alla mia, per vestirlo almeno delle mutande o d’una camicia e poi trasportarlo nella sua camera, al piano di sotto. Capii solo allora la sua triste bugia.
Innamorato dell’Anica e favorito meravigliosamente dalla sorte, ogni notte s’infilava nella camera di quella acerba e dura contadina sulla quale si ripagava della sua bruttezza, a dispetto del corazziere. Ma temendo che si scoprisse la tresca e che quella sua insperata fortuna finisse, aveva pensato di nascondersi nelle spoglie di un povero sodomita negato ad ogni grazia femminile.
Sul comodino da notte presso al letto dell’Anica dov’era morto, notai, di fianco al ritratto del corazziere in alta tenuta, il suo pitale, con due dita di vino nel fondo: lo tracannai, prima del trasporto, per prender forza e per resistere al freddo di quella nera mattina d’inverno. Era, inconfondibilmente, Refosco.
Piero Chiara
tra i più noti romanzieri della seconda metà del XX secolo
Foto di apertura: © K. Saragorn – Shutterstock. Elaborazione grafica: © V. Fovi
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© Riproduzione riservata - 10/05/2024