Dal nostro archivio (1974) | Grandi scrittori per Civiltà del bere: L’inappellabile bicchiere di Buzzati
Sfogliando i vecchi numeri della rivista, ci siamo imbattuti in una serie di servizi firmati da importanti scrittori e saggisti dell’epoca, che abbiamo deciso di riproporre per il loro valore letterario, oltre che giornalistico. In questo articolo tratto dal n.2 del 1974 la penna di Emilio Radius, redattore del Corriere e direttore di riviste nell’orbita del gruppo editoriale di via Solferino, ricorda il grande Dino Buzzati. Che si definiva un “giudice infallibile” in fatto di vino.
Per molti anni cenai la domenica con Dino Buzzati; e perciò posso ben dire che apprezzava il vino buono, sapeva distinguerlo dal cattivo, e berne, poco o molto, con la signorilità che portava in tutte le cose.
La passione per il vino chiantigiano
Non lo vidi mai non dico ubriaco ma nemmeno brillo, né eccessivamente allegro. Appunto perché sapeva che cosa è il vino.
Riguardo al vino, era piuttosto eclettico. Aveva però una preferenza pratica per il Chianti, il rosso, (non il bianco), che voleva non in bottiglia ma in fiasco. Lui era veneto, di Belluno, da tanti anni a Milano; ma aveva imparato subito a fiutare il Chianti tagliato o mescolato, comunque fosse tagliato o mescolato. In ciò anzi avevo l’impressione che esagerasse: un sorso o l’odore del bicchiere gli bastava, secondo lui, ad elogiare il fiasco o a rimandarlo indietro. Del resto era così anche a riguardo al pane, al pane buono, sempre più difficile da trovare. Prendeva un pezzetto di pane, lo portava alla bocca e dava subito il suo giudizio. Per trovare “il pane di una volta” lui e Almerina sua moglie fecero il giro di tutti i fornai di Milano.
Pane e vino immancabili alla sua mensa
Non era goloso. Gli piacevano i cibi semplici, ma sani, schietti. Aveva un orrore, non mediterraneo, dell’aglio: non perché non gli piacesse, diceva, ma perché gli faceva molto male. Diceva anche di invidiare quelli che con l’aglio potevano mangiare la zuppa di pesce o lo stufato. “Sono stato” raccontava “in Paesi dove l’aglio lo mettono da per tutto; e in quei Paesi io ero sui carboni ardenti”.
In trattoria si comportava sempre nello stesso modo, modo elementare ma terribile per i camerieri, i quali peraltro erano trattati da lui con la cortesia che gli era solita. Appena sedutosi a tavola, diceva: “Pane e vino, prego”. Continuava a chiederli finché non glieli avessero portati, con una specie di cadenza monotona. Arrivati finalmente il pane e il vino, li sottoponeva al suo esame particolare, che teneva e non teneva conto dei gusti degli amici, coi quali era assolutamente sincero in questa come in ogni altra cosa.
La mascolinità del rosso, la dolcezza del bianco
Se il pane e il vino non erano quelli che voleva lui, diceva: “Vedete, se io dovessi proprio seguire il mio impulso, mi alzerei e, pregandovi di seguirmi, ce ne andremmo a cenare altrove. Invece resto. Non sono timido, né educato esageratamente come dite voi: semplicemente, mi hanno dato un’educazione compiuta e complicata, all’antica, e nordica. In qualche cosa me ne sono liberato; nelle altre cose, ne sono sempre vittima”.
Sui vini bianchi aveva idee tutte sue molteplici e, a dire il vero, non ben chiare. Ne parlava un po’ come si parla delle donne. Maschio il vino rosso. Pieno di grilli, magari piacevoli, il vino bianco. Non ne teneva mai davanti una bottiglia: se mai, se la faceva passare da lontano. In genere, non lo beveva ma lo assaggiava. Secco o dolce? Diceva che gli piacevano di più i secchi ma che la qualità vera dei vini bianchi è la dolcezza.
Alla ricerca dell’essenza, senza pregiudizi d’etichetta
Dava poco retta alle etichette, ai loro stemmi e alle loro affermazioni. Anzi ne diffidava. Il suo gioco era quello di prendere una bottiglia nuda, stapparla, odorarla, versare un dito di vino nel bicchiere e procedere con lentezza, in parte scherzosa e in parte seria, all’assaggio a cui sarebbe seguito un giudizio, – questo sì lo diceva per burla – inappellabile. “Come scrittore non sarò un gran che; come pittore senza dubbio meglio, forse un grande pittore, ma come giudice di vini sono infallibile”.
In verità, non conosceva poi molti vini, faceva una certa confusione tra questi e quelli; e più di una volta concluse dicendo; “Non sono io, ve lo confesso, che conosco i vini: sono i vini, i miei vini, che conoscono me, sanno quando e quanto devo bere, mi rimproverano se ho bevuto troppo, mi impongono di non bere per qualche giorno. Io obbedisco e me ne trovo bene”. Era sempre così, in tutto. Celiava, rideva, intratteneva piacevolmente gli amici; e i suoi guai se li teneva per sé.
Il bicchiere si vuota sempre
Ne parlava poi nei suoi libri, tra i quali non ce n’è uno gaio, forse nemmeno La famosa invasione degli orsi in Sicilia, scritta per i piccoli e vivacemente illustrata da lui medesimo. Perciò non solo non affliggeva mai la compagnia, nemmeno alla fine delle sue giornate più dolorose; ma neanche gli succedeva di annoiarla. Penso che, quando non poteva più contenere la tristezza, si alzasse da tavola dicendo che stava poco bene, niente di grave, o aveva sonno, o doveva partire la mattina presto. Essendo di quelli che se riempiono il bicchiere non lo lasciano mai a metà, badava a vuotarlo e invitava gli amici a vuotare coscienziosamente i loro.
Emilio Radius, giornalista, romanziere e saggista italiano (1904-1988)
Foto di apertura: © J. Wellington – Pixabay elaborazione grafica © V. Fovi
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© Riproduzione riservata - 12/04/2024