Dal nostro archivio (1974) | Grandi scrittori per Civiltà del bere: Alessandro Cutolo rispolvera “Il Bacco in Toscana” del Redi

Dal nostro archivio (1974) | Grandi scrittori per Civiltà del bere: Alessandro Cutolo rispolvera “Il Bacco in Toscana” del Redi

Sfogliando i vecchi numeri della rivista, ci siamo imbattuti in una serie di servizi firmati da importanti scrittori dell’epoca, che vi riproponiamo anche per il loro valore letterario. In questo articolo il professore e storico medievista Alessandro Cutolo analizza la celebre composizione poetica di Francesco Redi dedicata al vino

Il famoso ditirambo che Francesco Redi, un medico aretino, scrisse nel 1685 ha avuto sempre quell’enorme successo che merita; a Napoli, però, hanno qualche volta torto il muso per alcuni versi di quella composizione, che ai napoletani non vanno giù. Il protagonista del carme, Bacco, dice ad Arianna “beverei prima il veleno / che un bicchier che fosse pieno / dell’amaro e reo caffè. / Colà tra gli Arabi e i Giannizzeri / liquor sì ostico / sì nero e torbido / gli schiavi ingollino”. Figurarsi se i napoletani, i quali hanno il culto del caffè possono sopportare quest’insulto alla loro bevanda preferita.

Alessandro Cutolo
La copertina del 5° numero di Civiltà del bere, dedicata all’attore Ugo Tognazzi

Il ditirambo di Francesco Redi

Ma la scusante la trovò Nicolini, il portabandiera dei Crociani, quando scoprì che quel disgraziato del Redi non faceva tostare il caffè, ma lo bolliva in chicchi verdi e poi lo beveva. “Immagina tu – mi disse Fausto Nicolini – che schifezza doveva essere quella bevanda!”. Ma fu, quella dei napoletani, una piccola nuvola sul cammino glorioso della stampa di quel libro, esaltatore dei vini. Dalla prima del 1685 all’ultima curata da me, illustrata deliziosamente dal pittore Alberto Longoni (qui riproduciamo due dei suoi disegni), e stampata in maniera superba, da quel mago della tipografia, che è il milanese Ferruccio Lucini, in soli 165 esemplari.
Il ditirambo di Francesco Redi non si può attribuire al secolo barocco. Esso non ha tempo, è eterno, attuale ieri come oggi; da paragonare alla più fine lirica greca; da comparare ad un moderno componimento, per la sua fresca grazia che lo pone in quella sfera d’arte, in cui trovano posto i capolavori ai quali il tempo non fornisce altro che la data di nascita.

La grande passione per il vino

Francesco Redi era medico di professione, e come tale ha scritto molte ed importanti opere di medicina; ma nessuno lo conoscerebbe, fatta eccezione di qualche specialista, se non fosse stato ispirato a scrivere questo ditirambo. Era medico di professione, ma umanista di vocazione, che si intendeva di antiche lingue e di antiche letterature, che conosceva gli idiomi moderni, e specie l’italiano, al punto di essere ritenuto uno dei membri più autorevoli della famosa “Accademia della Crusca”.
Questo poema lo compose per dar veste poetica alla sua passione per il vino. Il vino, foriero di allegria, fugatore delle malinconie, compagno delle ore liete e delle tristi, vario in sua bellezza, dai mille sapori, dai mille odori, dai mille colori, il Vino che ha tante volte eccitato la fantasia dei poeti. Il ditirambo sgorga da un’allegria incontenibile, ed è scritto in chiave euforica; però la profonda cultura classica dell’autore, è sempre lì nel sottofondo.
Bacco, che rivolge il suo monologo ad Arianna, passa da una sensazione all’altra: ora loda un vino, ora ne critica un altro; ora vitupera le bevande come il thè, il caffè, la cioccolata, la birra, il sidro, che lascia al cattivo palato dei barbari; ora si sofferma, da competente, sui vari tipi della coltivazione della vite in Toscana. Tutta la poesia ha un fresco carattere di volubilità. È il discorso di un ebbro; ma di un ebbro, però, sempre presente a se stesso, che s’intende molto di vini e sa polemizzare ed ironizzare quando descrive vigne e grappoli.
Il discorso dell’ubriaco lucido balza da un argomento all’altro; da una disquisizione sui colli toscani alla celebre canzone che scaturisce, bizzarra e sincopata, come avviene, nella realtà, dalla gola di chi ha bevuto un bicchiere di troppo:

Ariannuccia leggiadrabelluccia

cantami un po’

cantami un po’

cantami un poco e ricantami tu

sulla vio’

sulla viola la cuccurucù

la cuccurucù

sulla viola la cuccurucù…

La conoscenza dei vini toscani

Francesco Flora, critico di sensibilità squisita, paragona questa composizione alla musica rossiniana, tanto essa è fresca e varia, melodiosa e bizzarra, precipitosa e tranquilla; tanto ritmo è in tutta la poesia; tanta fresca gioia di vivere promana da essa; tanto vero amore per il vino; tanti fulminei passaggi, assolutamente impreveduti, sono in tutto il graziosissimo carme. Questi passaggi, è sempre il Flora a notarlo, richiamano certe dissolvenze cinematografiche, sulle quali si apre un nuovo quadro, mentre ancora dura una scia del precedente.
I ritmi che paiono sgorgati dall’estro di un versificatore estemporaneo, sono invece lavorati e sorvegliati da chi aveva grande dimestichezza con la migliore poesia degli antichi Greci. Il delizioso scherzo ritmico rimane intimamente legato alla celebrazione del vino; ma le coppe tracannate eccitano la fantasia del poeta che spazia in quei cieli azzurri ai quali approdano sempre quegli artisti che sappiano trasformare, quale essa sia, la realtà in fantasie d’arte. E quanta profonda conoscenza dei vini toscani!

Se dell’uve il sangue amabile

non rinfranca ognor le vene,

questa vita è troppo labile,

troppo breve e sempre in pene.

Si bel sangue è un raggio acceso

di quel sol che in ciel vedete

e rimase avvinto e preso

di più grappoli alla rete.

Ode anche ai vini francesi e campani

A questo punto Bacco elogia altri vini, specie i francesi; però preferisce quello “sì puretto” che “si vendemmia in Artimino” e continua: “vo’ trincarne più di un tino”. Ma anche altre qualità di vino sono da lui gradite. Quello che si vendemmia nelle vigne di Petraia e di Castello, il Moscatelletto di Montalcino, che precisa, è “…un vin ch’è tutto grazia, / ma però troppo mi sazia”.
Quei napoletani che ce l’avevano con lui per la denigrazione del caffè, dovevano anche ricordare che il Redi loda dei vini napoletani il “superbo Fasano” e la “…pampinosa vigna / che lieta alligna in Posillippo e in Ischia”. “Forse avverrà – continua dopo un poco – che sul Sebeto io voglia / alzar un giorno di delizie un trono” e spera che gli offrano devoti “di Posillippo ed Ischia il nobil Greco”.
Ma le preferenze di Bacco vanno sempre ai vini di quella Toscana nella quale è nato il poeta: il Buriano di Pescia, il Trebbiano, il Colombano, “han giudizio, e non son gonzi / quei Toscani bevitori / che tracannano gli umori / della vaga e delle bionda, / che di gioia i cuori innonda / Malvagia di Montegonzi”.

L’invito a mescere e l’elogio al Chianti

Con questa nomenclatura potremmo andare avanti per un pezzo, perché il Redi doveva essere un forte e sagace bevitore e sapeva quale vino andasse bevuto a temperatura ambiente, quale “arcifreddissimo” quale è “sì forte e sì possente / che per ischerzo baldanzosamente / sbarbica i denti e le mascelle sganghera.”
Bacco più vino gli si offre e più ne beve: “Mescete o miei compagni – dice – e nella grande inondazione vinosa / si tuffi e ci accompagni / tutt’allegra e festosa questa che Pan somiglia”.
Bacco invita gli uomini a gareggiare a chi più imbotta, ed afferma che quando il vino è gentilissimo “digeriscesi prestissimo”. Naturalmente per il Chianti, adopera aggettivi come maestoso, imperioso, ed afferma che gli passeggia nel cuore e ne scaccia senza strepito ogni affanno e ogni dolore.

Il vino come medicina e cura

Chi beve l’acqua non riceverà mai grazie dal Redi. Sia quest’acqua, bianca, fresca, essa è per lui sempre sciocca ed importuna, riottosa ed insolente, che rompe i ponti e gli argini, che straripa e fa danno a campagne ed a fiori. Le acque del Nilo e del Tago sono lodatissime, è vero ma “… io per me – seguita – non ne son vago”. Bisogna che beva vino, vino, chi vuole fuggire ogni danno! Poco male se pare che la terra si raggiri sotto i piedi, cominci a tremare e, traballando, minacci disastri. Di tutti i vini toscani il Re, per il Redi, è quello di Montepulciano.
Ma non importa questo o quel vino. Importante è che si beva e si beva bene, perché il vino, oltre tutto, è una grande medicina, molto più efficace, sostiene il Redi, di quelle che gli speziali consigliano. E non bisogna dimenticare che il Redi era, per mestiere, medico ed aveva scritto opere notissime sui tumori, su alcune malattie particolarmente pericolose importate dall’India e via enumerando.
Se però, ripeto, non avesse composto per il vino questo straordinario elogio, il suo nome sarebbe oggi ignorato o quasi, perché la scienza progredisce ed annulla la scienza precedente, mentre il vino e la poesia, che da esso scaturisce, rimangono eterne.

Alessandro Cutolo, professore di Storia Medievale, direttore del mensile Historia e conduttore televisivo

Foto di apertura: © YueStock – Shutterstock. Elaborazione grafica © V. Fovi

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© Riproduzione riservata - 24/05/2024

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