Dal nostro archivio (1974) | Grandi scrittori per Civiltà del bere: i ricordi nel bicchiere di Carlo Castellaneta
Sfogliando i vecchi numeri della rivista, ci siamo imbattuti in una serie di servizi firmati da importanti scrittori dell’epoca, che vi riproponiamo anche per il loro valore letterario. In questo articolo il prolifico narratore e giornalista milanese Carlo Castellaneta racconta il suo avvicinamento e poi innamoramento al mondo del vino.
Ho assaggiato il mio primo vino intorno ai dieci anni. A casa mia lo si beveva soltanto di domenica e nelle feste comandate. Mia madre mi mandava a comperarlo all’osteria sotto casa, nella milanesissima via Melzo dove abitavamo. Era un bottiglione di vetro nero, pesantissimo, che mi fiaccava le braccia lungo i quattro piani di scale. Il vino era Barbacarlo oppure Freisa, un vino spesso, schiumoso, dal sapore di fragola. Nessuno dei miei genitori si intendeva di vino, serviva più che altro da allungare con l’acqua o per intingervi le paste alla fine del pranzo festivo. Ma il vino ci voleva, necessario come un rito, per dirci che era domenica.
Dal nonno bevitore al militare ad Orvieto
Ho avuto un nonno materno gran bevitore, che prima di rincasare con la bicicletta faceva il giro dei trani di Porta Vittoria. Si vede che una volta se ne beveva molto, vino di Trani, se i milanesi han battezzato così le osterie, e ancora si dice per “ubriacone” la parola “tranàt”. Di questo mio nonno “tranàt” ricordo i baci e i baffi che sapevano di Barbera, e credo che alitasse ancora di rosso quando lo chiusero nella cassa.
Questo per dire che del vino, semmai, temevo gli eccessi. Come mi capitò di vederne a vent’anni, quando a Orvieto passai il servizio militare. È noto quanto si beve bene da quelle parti. Eppure il vino che scorreva abbondantemente nel mio gamellino (si beveva per sete ma anche per riempirsi in qualche modo) lo ricordo ancora con orrore. Forse il vino degli Anni Cinquanta in Italia era meno autentico di quello di quello di oggi, e probabilmente nessun vino resisterebbe, versato da tàniche in gavettini di alluminio…
La scoperta del “mondo dei vini” in età adulta
C’è una stagione per tutto. La mia di bevitore cominciò tardi, quando mi sposai e scoprii, anzitutto, i piaceri della tavola. Così a trentun anni mi accorsi che c’era un mondo a me ignoto: il mondo dei vini.
La generazione alla quale appartengo è stata la prima generazione della Coca Cola. Nessun ragazzo di città, nel dopoguerra, avrebbe potuto educarsi il palato al vino, ritenuto allora bevanda per garzoni, tanto che ancora oggi se viene in casa un imbianchino o un tappezziere gli si lascia il fiasco di Chianti a disposizione o gli si offre un bicchiere alla fine.
Di pari passo con i vini che scoprivo legati ai vari piatti (e quali fossero i vini d’arrosto, da pesce o da dessert) mi capitò di completare l’esperienza dapprima con le gite fuori porta, e poi con i week-end. L’automobile, oggi tanto vituperata, è servita, io credo, a far conoscere l’Italia agli italiani, la campagna ai cittadini e viceversa. Così a quelli, come me, che uscivano d’estate verso i cascinali dell’hinterland, nelle osterie con gioco delle bocce, magari all’Idroscalo o sul Naviglio, veniva d’obbligo assaggiare il vino dell’oste, fosse solo per mandar giù un panino col salame.
I viaggi in macchina alla scoperta dei territori
La gita in automobile, praticata all’inizio degli Anni Sessanta, fu la mia università enologica. Fine settimana passati nelle Langhe, escursioni nei colli toscani, puntate nell’Oltrepò Pavese, mi insegnarono a razziare sui posti bottiglie di Barbaresco, di Chianti, di Broni. Riempivo il baule e poi al ritorno scaricavo in cantina con orgoglio quelle bottiglie con l’etichetta fatta in casa. Certi indirizzi di produttori venivano scambiati tra amici sottovoce. Un ristorante con cantina selezionata valeva come un’informazione in borsa. Si tornava dalla Francia o dalla Spagna con trofei d’annata. Persino dalla Grecia o dalla Bulgaria si riportava qualcosa che valesse la pena di far gustare agli ospiti in una cena.
Adesso si è fatto più raro il piacere della scoperta. Difficile andare con soddisfazione per “piole” o per “crotti” come cacciatori di rarità. I cataloghi dei produttori si sono raffinati, si può ordinare del buon vino anche per posta. Io non sono un gran bevitore (per esserlo, bisogna essere anche un forte mangiatore) ma per una bottiglia come si deve, mettiamo di Picolit, son capace, dico la verità, di fare un viaggio. E credo anche voi.
Carlo Castellaneta, scrittore e giornalista italiano, ma anche presidente del Museo teatrale alla scala (1930-2013)
Foto di apertura: Elaborazione grafica © V. Fovi
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Tag: 50 anni di Civiltà del bere, archivio storico Civiltà del bere, Carlo Castellaneta© Riproduzione riservata - 07/06/2024