Cosa succede a Dogliani
Calano superfici e imbottigliato, ma il legame della Docg piemontese con il Dolcetto resiste. Il nodo della comunicazione e il ruolo centrale della ristorazione.
Meno ettari e meno bottiglie, una buona parte della produzione che finisce sotto il cappello di una denominazione di ricaduta, il crescente interesse per altre varietà e altre tipologie. Se dovessimo giudicare lo stato di salute del Dogliani Docg solo alla luce dei dati e di quello che sta succedendo a livello produttivo, probabilmente dovremmo emettere un bollettino abbastanza preoccupante, oltre che forse sconfortante. Eppure, bicchiere alla mano, la media qualitativa dei vini realizzati con il Dolcetto in questa denominazione fa immediatamente tornare il sorriso agli amanti di questa storica varietà piemontese e soprattutto di questo specifico territorio. Non solo. Mettendo da parte pregiudizi e preconcetti, i più attenti e appassionati non possono che entusiasmarsi di fronte alla capacità di cavalcare il tempo di alcune tipologie di Dogliani.
Dal 2010 a oggi superfici e imbottigliato sempre più giù
I numeri non dicono tutto, ma molto. Il dato di fatto è che il Dogliani Docg è in lenta, ma costante, regressione in termini di ettari vitati e imbottigliato da più di 10 anni a questa parte. Dai poco più di 1.000 ettari del 2010 dedicati al Dolcetto all’interno dei 21 comuni che appartengono a questa denominazione e che davano origine a quasi 5 milioni di bottiglie, siamo passati ai 766 odierni (-25%) e a una produzione che nel 2022 si è attestata a circa 1,5 milioni di bottiglie (-70%), la metà di quelle che potenzialmente potrebbero essere messe in commercio con questa denominazione.
Cosa è successo? Più fattori hanno certamente contribuito a questo vero e proprio declino produttivo. A partire dal fatto che buona parte della produzione ormai confluisce all’interno della denominazione Langhe Dolcetto, certamente meno vincolante e stringente. C’è poi lo storico problema di Dogliani, se vogliamo croce e delizia insieme: la vicinanza con i vigneti del Barolo. Un vicino famosissimo e forse anche un po’ ingombrante, catalizzatore di attenzioni e investimenti, che a sua volta accoglie il Dolcetto tra le sue vigne. Oggi, vendere una bottiglia di Barolo, sebbene decisamente più cara, è certamente più facile e redditizio di un Dolcetto.
Lo sguardo ad altre varietà
Ma non è solo una questione di vicinato. «Il Nebbiolo, con il cambio climatico l’abbiamo spostato fino a 600 metri con ottimi risultati. Abbiamo piantato Pinot nero e Chardonnay per l’Alta Langa. Inoltre c’è un’ottima crescita di vitigni a bacca bianca come Riesling e Nascetta, così come esperimenti anche con il Viognier e il Timorasso», ci spiega Anna Maria Abbona, produttrice e consigliere (per tanti anni anche presidente) della Bottega del Vino di Dogliani, il consorzio tra produttori di questa denominazione che dal 1984, anno della sua fondazione, promuove il vino e le eccellenze del territorio. Niente di male nel cercare alternative che vadano incontro alle richieste del mercato, ma nonostante questo, e per fortuna, molti produttori continuano ad essere, quasi ostinatamente, legati soprattutto a questa varietà. Che qui assume caratteristiche differenti da altre denominazioni e una sua ragion d’essere peculiare e originale.
Il Dolcetto: scorbutico ma così meravigliosamente “piemontese”
È sensibile all’umidità e non si adatta a tutti i suoli, soprattutto se non c’è calcare nel terreno. Germoglia tardivamente, aspetto positivo se pensiamo alle gelate. Invaia precocemente e quindi viene vendemmiato prima degli altri vitigni a bacca rossa. È meno resistente alle malattie rispetto alla Barbera, ma lo è alla botrite.
«Ci sono inoltre in giro molti Dolcetto franchi di piede, a dimostrazione della sua resilienza», ha spiegato recentemente l’agronomo Matteo Monchiero, durante un incontro organizzato proprio dalla Bottega per approfondire le caratteristiche di questa varietà e presentare le nuove annate in commercio. Insomma, è un vitigno esigente e farlo bene non è così scontato. Anche a Dogliani, inoltre, la ricchezza cromatica, quasi esuberante, che questa varietà si porta in dote soprattutto in gioventù, è molto evidente; così come la presenza di tannini scalpitanti. Le sensazioni finali, dopo averlo assaggiato, fondono inoltre insieme dolcezza del frutto e sfumature ammandorlate, molto tipiche e caratteristiche.
Il Superiore, il Dogliani che non teme il tempo…
Delle due tipologie consentite dal disciplinare, il Superiore, che rappresenta il 7,5% della produzione complessiva (116.701 bottiglie nel 2022 secondo il Consorzio di Tutela Barolo, Barbaresco, Alba, Langhe e Dogliani), mostra forse il volto più originale di questa denominazione, soprattutto sul fronte della longevità. Una parola, quest’ultima, che secondo i più scettici non può far rima con un vitigno come il Dolcetto; e che invece proprio il terroir di Dogliani è in grado quasi sempre di smentire.
Il Dogliani Superiore 2011 San Fereolo dell’omonima azienda con sede nella Borgata Valdibà, ad esempio, a 12 anni dalla vendemmia mostra in questo momento un frutto ancora delicato e vivo, ma soprattutto un sorso dotato di una trama tannica raffinatissima.
«Quando parliamo solo di Dogliani e non di Dolcetto, sembra quasi che si voglia raggirare il consumatore» ci spiega, con un po’ di amarezza, la produttrice Nicoletta Bocca, oggi al timone proprio della Bottega come presidente.
… e che mostra il suo volto più austero e signorile
Eppure da sempre, ben prima dell’arrivo della Docg, i produttori mettevano da parte una selezione delle migliori uve di Dolcetto, spesso provenienti dalle vigne più belle e più vecchie, per produrre vini che, sebbene magari non pensati per durare nel tempo, in realtà poi erano in grado di farlo agevolmente, migliorando sensibilmente in termini di profondità espressiva ed equilibrio. Anche in gioventù il Dogliani Superiore, sebbene si porti in dote i tratti più tipici del vitigno di partenza, allo stesso tempo quasi li sublima in qualcosa di diverso. Un esempio? Il Dogliani Superiore 2021 San Matteo di Eraldo Revelli sfodera già ora quell’austerità che forse non ci si aspetta da un Dolcetto; quell’eleganza sottile, delicata, così come un tannino gessoso e tremendamente vivo, che lo sosterrà per molto tempo ancora.
Il ruolo della comunicazione e l’importanza di fare sistema
Nel caso del Dogliani, la famosa espressione latina Nemo propheta in patria sembra calzare a pennello. «Il problema più grosso è la mancanza di collegamento tra noi produttori e il territorio che lo dovrebbe proporre», conclude Anna Maria Abbona. «Ci manca una spalla che ci creda e ci sostenga. Dobbiamo sicuramente fare delle operazioni di educazione nei confronti dei ristoratori, per far sì che si sentano parte di un territorio, di una storia, di una tradizione e di una identità».
Paradossalmente, il discorso sembra cambiare quando si varcano i confini italiani. «C’è più spazio all’estero per il Dogliani», aggiunge convinta ancora Nicoletta Bocca. «Ci sono meno preconcetti sul Dolcetto. E il territorio di Dogliani è in grado di mostrare una bella fotografia del territorio piemontese».
Non è facile qui trovare le risorse per investire in comunicazione, parola magica e spesso evocata in questi casi, ma sarebbe sicuramente necessario farlo. Non solo per raccontare il Dogliani al consumatore finale, ma per fare sistema con chi fa poi da trait d’union con lui, a partire ovviamente dalla ristorazione, che potrebbe (e dovrebbe) diventare il primo ambasciatore di questo vino.
Foto del servizio © Bottega del Vino di Dogliani
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© Riproduzione riservata - 29/08/2023