In questo articolo del maggio 1983 il celebre enologo Giacomo Tachis invita a mantenere un atteggiamento cauto e responsabile davanti a certi trend, per evitare che diventino derive dannose. Il caso più emblematico è quello dell’uso della barrique
È molto incoraggiante sentire parlare di evoluzione e a volte addirittura di rivoluzione tecnica del vino che si produce nel nostro soleggiato Paese, anche se qualcuno di questi moti rivoluzionari, magari per non sempre esatte interpretazioni, a volte non evolve come ci piacerebbe il nostro patrimonio enologico sia sul piano tecnico, sia – di riflesso – su quello commerciale.
D’altro canto l’evoluzione non è un processo semplice e che fila sempre e solo nelle direzioni giuste: ricordiamoci che a questo mondo tutto si paga e di gratuito non c’è proprio nulla. Bisogna ben riconoscere che i vini italiani sono andati avanti parecchio nell’indice di gradevolezza in generale, grazie a tante cose fra cui, non ultime, la tecnologia viticola e la tecnologia enologica.
Conseguenze dell’elogio, della critica e dell’ambizione
Il fatto di autocriticarci, magari anche perché sentiamo che a volte ci criticano fuori casa, è un segno positivo e promettente. Direi che oggi a noi fa più comodo la critica che non l’elogio, perché se quest’ultimo ci fa sdraiare sul letto di comodo e ci porta a pensare meno, la critica ci spinge a cercare e poi perseguire i mezzi per migliorare il prodotto che dovrà viaggiare per le strade del mondo, e fermarsi poi di fronte al suo qualificato concorrente straniero per competere con esso.
Ora, come tutte le cose che non sempre riusciamo a capire bene o che non affrontiamo con totale chiarezza di concetti e con perfetta conoscenza specifica, ci può succedere di sfiorare degli inutili eccessi di buona volontà, dei fragili desideri e delle sane ambizioni addirittura. Niente di scandaloso; l’ambizione è necessaria per gareggiare e noi nel vino abbiamo il diritto e il dovere di gareggiare specialmente fuori confine. Gareggiare con prodotti di consumo corrente ma soprattutto con “alte cilindrate”. Oggi tanti produttori ci provano davvero, impiegando tutti i mezzi tecnici (e anche economici): ragionati, meno ragionati, a volte azzardati ma sempre e solo allo scopo di “far bene”.
Moda sì, ma solo se ci sono i presupposti e i caratteri adatti
Cosi nascono sistematiche nuove che vengono adottate con criteri tecnici ed economici più o meno giustificati e che a volte raggiungono persino la sensibilità del più rigido produttore tradizionale, il quale – pur cercando di non cancellare, come in certo modo deve essere, la tradizione più conservatrice – tenta di modificarla in meglio… cose lodevolissime!
Diciamo che l’insieme di queste “buone volontà” porta addirittura alla creazione di un po’ di moda, grazie anche al parlare che se ne fa, alla propaganda commerciale ed all’eco della stampa italiana e straniera. Sono nati così i viaggi di moda: per esempio nel Bordolese prima e in California poi: iniziative molto buone ed utili sempre e comunque. Fra l’altro l’una e l’altra “terra promessa” sono anche piacevoli turisticamente e gastronomicamente e la gente del vino, specialmente in America, è piuttosto aperta e di simpatico rapporto umano.
Bisogna però che stiamo attenti a non ammalarci di “moda” per desiderio di tecnica che non sempre si può applicare alla nostra produzione perché qualche volta non ne ha i presupposti, i caratteri adatti.
Non tutto il vino può maturare in barrique
Mi sono dilungato forse un po’ troppo in preliminari poiché sento un silenzioso imbarazzo a parlare della nuova filosofia del vino da invecchiamento nonché del sistema per realizzarlo: però vorrei dire comunque qualcosa. È molto bello che si parli sovente di invecchiamento del vino (specialmente rosso) in barrique di legno francese, di legno jugoslavo, americano e via dicendo; ma un conto è parlare, un conto è agire. Il parlare corrisponde a utile e rispettabile teoria, l’agire corrisponde a faticosa pratica e crudele realtà…
Non è sempre detto che chi ha una ricchissima biblioteca in casa sia una persona d’intelligenza e di cultura eccezionale, come non è detto che chi è ricco sfondato sia sempre una persona molto in gamba: a volte le fortune vengono ereditate e l’erede può anche essere incapace a mantenerle. Così può succedere che in cantina ci sia un meraviglioso patrimonio di tini moderni, di botti nuove e di barriques e un vino non dico “non buono”, ma inadatto all’uno o all’altro vaso vinario…
Eccoci al problema nostro. A base della buona volontà e del desiderio di fare bene, bisogna fare due ragionamenti quando si vuole lavorare di fino e con mezzi nuovi.
Una decisione da prendere di concerto, senza seguire a priori la moda
Innanzitutto il vino nella sua composizione chimica e organolettica deve essere adatto ad un processo o ad un altro, nel senso che deve avere veramente, più che le chances, le caratteristiche tecniche per perseguire un processo impegnativo quale è la conservazione in fustino nuovo o in piccola botte di legno che “morde”, anche se già fra questi due contenitori esiste una notevole diversità di tecnologia, di evoluzione del vino e del suo risultato finale.
Alla base di questo “esame di coscienza” sta non tanto l’enologo ma il viticoltore, perché il vino nasce dall’uva prodotta nella vigna coltivata in un certo modo e con determinati tipi di vitigno e di vitigni. L’enologo, insieme al produttore e al viticoltore, deciderà la tecnologia più adatta da intraprendere dalla vendemmia in poi. Noi non dobbiamo condizionare la nostra filosofia enologica di base a quella che può essere una moda, pur molto valida, ma non sempre adatta alle circostanze della nostra produzione, così come non dobbiamo pensare che l’uomo diventi più bravo o meno a seconda del vestito che indossa. Non mi è facile esprimere questo concetto, ma vorrei dire che se il vino è ottenuto per esempio da particolari mescolanze di uve, da varietà di vitigni, da sistemi di vinificazione non adatti a certi destini, è sconveniente avventurarsi.
Convivenza vino-legno: gli aspetti da considerare
Da notare che non c’entra il valore della botte e/o la fattura del fustino e il suo legno di origine: è questione di possibilità di convivenza vino-fustino, vino-legno; questa capacità di convivenza è esclusiva funzione della composizione chimica del vino, dei suoi caratteri strutturali e perciò quasi sempre dei caratteri del vitigno di provenienza, naturalmente dopo una vinificazione adatta allo scopo prefisso.
E neppure ci dobbiamo sentire condizionati e tanto meno mutilati dal fatto di non perseguire i sistemi più ricercati e – torno a dire – anche un po’ di “moda”. Questa parola, anzi, dovrebbe diffondersi soltanto nella dialettica mondana, letteraria, o al massimo commerciale del vino, ma non nella sua tecnologia. La tecnologia è e deve essere una cosa molto razionale e non tollera le usanze, le consuetudini, la “moda”. Essa nasce da basi scientifiche e d’esperienza sudata, non da imposizioni o da trascinamenti che possono provenire da altro ambiente pseudo-tecnico o più superficiale, fino quasi al salottiero.
Più esperienza tecnologica e meno abbagli dall’esterno
Questa considerazione vale per tutti noi, ma specialmente per quei produttori tanto appassionati, in buona fede, pieni di interesse tecnico e commerciale, che però a volte non posseggono o non dispongono di sufficiente esperienza tecnologica da un lato, e dall’altro sono continuamente sollecitati, “stuzzicati” da segnalazioni, letture, gare, propaganda e da confidenze su come fa il vicino o il lontano di casa a produrre, a invecchiare il vino, a impostare nuovi tipi e via discorrendo. Senza considerare – dicevo prima – i viaggi nelle “valli dell’Eden” …
Direi quindi che ogni vitigno, più che ogni vino, deve suggerirci le modalità di perfezionare il vino che ne deriva, premesso naturalmente che l’enologo abbia prima un buon palato e poi una mano buona. Vorrei notare che il fustino a barrique è nato sì con la dimensione e la forma rispondenti al risultato più alto di evoluzione e miglioramento del vino, ma non si deve neppure dimenticare che queste forme e misure sono anche la risultante di una lunga esperienza intenta a cercare il minore spreco possibile di legname buono.
Quello che c’è da sapere nella scelta della barrique
Che cosa si intende per legname buono?
° Cuore del tronco e non alburno, cioè parte più debole, più porosa a scarso o a non adatto sapore e profumo.
° Legno di facile fenditura (spacco) e resistente agli urti, e agli altri imprevisti di lavoro in cantina (oggi ci sono fusti ottenuti anche da legno segato anziché di spacco, ma non è la stessa cosa).
Non voglio entrare in particolari tecnici e specifici perché questa non è la sede, ma trovo interessante riportare che il legno da barrique più stimato all’inizio di questo secolo nel Bordolese era quello austriaco, imbarcato a Trieste e di esso la regione suddetta ne importò quantità tali da produrre parecchi milioni di barriques. Quel legno austriaco, oltre contenere principi odoranti molto favorevoli al miglioramento organolettico del vino, era anche facile a lavorarsi, era omogeneo, aveva un buon spessore e costava meno di quello francese. Andava molto bene anche per certi vini bianchi. Ma la storia verrebbe troppo lunga perché bisognerebbe poi parlare dei legni americani, dei legni di Odessa (provenienti dalle foreste del Caucaso), di quelli provenienti da Stettino, Danzica, Riga, Lubecca, Memel, fino a rientrare in madre patria delle barrique per ricordare i cosiddetti “merrains du pays” (Tronçais, nell’Allier, Belleine nell’Orme ecc.) e di conseguenza uscirei dal seminato, annoiando il lettore.
Il concetto moderno dello “stile” del vino
Ora noi dobbiamo insistere su questi mezzi che non infrequentemente rappresentano un’arma a doppio taglio e assai più sovente richiedono un triplo portamonete, ma non dobbiamo fissarci sul fatto che essi non vanno bene per tutti i vini. Ne deriverebbe un bel guaio e un po’ di esperienza su queste cose ce lo può confermare. È chiaro invece, che se il vino ha le carte in regola per entrare in questi contenitori, il successo – almeno tecnico – viene assicurato, checché si dica.
Cose delicate non tanto a farsi, quanto ad “accettare”.
Ma l’evoluzione della nostra enologia abbraccia un campo che va ben oltre la barrique: la determinazione del criterio sulla scelta dell’uva di partenza e su che cosa vorremo ottenere e fare dopo la sua fermentazione, un tipo adeguato di vinificazione, sono le prime cose a cui pensare. E poi dobbiamo proprio approfondire il concetto moderno dello “stile” del vino (e quindi dei suoi caratteri organolettici) e su di esso basare le nostre riflessioni circa la scelta delle uve stesse che lo dovranno produrre. Saranno dunque queste cose a indirizzarci sull’uno o sull’altro sistema di invecchiamento del vino, e allora solamente le sperimentazioni torneranno utili in quanto ci saremo resi conto di che cosa si dovrà ottenere da esse. Infatti bisogna avere le idee chiare sul materiale da sperimentare e su che cosa esso ci “può” dare; questo, a qualunque livello, compreso quello scientifico.
La questione legislativa va affrontata
Per ultimo, c’è da fare i conti con la legge. Fino a quando i Disciplinari di produzione sigleranno con la ricetta di sempre il processo d’invecchiamento dei Doc e ora anche dei Docg, riportando il solito vago frasario (“… invecchiamento in botti …” oppure al massimo “ ..in botti di rovere o di castagno …”), non è che potremo dare stili raffinati e/o più aggiornati ai vini importanti (vedi “Civiltà del bere” n. 5/maggio ‘81/pag. 102).
Io non voglio protestare contro il Comitato per le Denominazioni dei vini di origine, perché siamo noi che prepariamo il materiale per avanzare le “proposte di Disciplinare” e in esso scriviamo più di Francesco Redi, poeta-farmacista, o di Repetti o del Papa tale, che di seria tecnologia … Caso mai, dovrebbe essere il Comitato di tutela a brontolare con noi. Come vedete, non è che mi permetta di andare oltre i confini della mia Regione: non ne avrei la capacità, né il diritto: mi basta stare in zona per vedere quanto c’è ancora da fare!
Giacomo Tachis