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Il digital marketing del vino e i nuovi social network

21 Ottobre 2016 Civiltà del bere

                                                                                                                                                                            di Stefano tesi

Qualche settimana fa mi chiama una collega e mi dice: «Perché non proviamo a organizzare un corso di alto profilo che aiuti noi quarantenni (più che noi direi loro, ahimè, nda), che ci occupiamo anche di comunicazione e uffici stampa, a gestire meglio i social e il web? Le nuove generazioni sono molto più avanti e il lavoro va sempre più in quella direzione». Seguono presa d’atto e malizioso sorriso interiore del sottoscritto. Il tempo rende sempre giustizia, penso tra me e me: chi di web, quindici anni fa, feriva i “matusa” veri o presunti della professione, ora di web rischia di perire. O almeno di arrancare. Anche se solo professionalmente, per fortuna.

Il digital marketing del vino corre in fretta

Segue sondaggio per capire se la proposta della mia amica sia il frutto di una sua personale esigenza o rispecchi davvero un “fabbisogno formativo diffuso”, come scriverebbero i burocrati del settore. Il risultato non lascia scampo: la fascia dei giornalisti enogastro-etc (e non, per la verità) di età compresa tra i 35 e i 50 risulta in grandissima maggioranza letteralmente affamata di lumi e nozioni su come si maneggino i social quando, dalla solita paginetta personale, si passa alla gestione delle pagine istituzionali delle aziende e alle relative strategie. Per non dire dei nuovi social che, pare, starebbero per efficacia soppiantando i vecchi. La rete infatti corre in fretta e chi a me appariva ieri uno smanettone appare oggi, ai nuovi smanettoni, una tartaruga della tastiera. Lo stesso Facebook muta e si adegua con una velocità tale da disorientare anche i suoi utenti più smaliziati.

L'utilizzo professionale: si o no?

Il buffo, o meglio direi il grottesco, è che tutto ciò accade mentre (come del resto già scritto in una precedente puntata di questa rubrica) gran parte dei produttori vinicoli, cioè alla fine i committenti dei servizi di consulenza, deve ancora capire il funzionamento di base del sistema che va già tramontando, quello dei banali “like” per capirsi. E non sa più se fidarsi dei suggerimenti del consulente quarantenne retribuito o delle fulminanti ironie del nipotino neodiplomato e web-dipendente che adombra l’esistenza di conoscenze arcane. E poi c’è sempre la fatidica domanda-chiave: chi insegna di preciso cosa a chi? Esiste davvero una frontiera seminesplorata nell’uso professionale dei social, una sorta di tecnica da deep facebook riservata agli addetti ai lavori, in grado di influenzare, quando non orientare o perfino condizionare, i consumi e i consumatori? Già, perché alla fine sempre di quello si tratta: informazione poca, marketing tanto.

Innovazione e tradizione

Alla mia amica, comunque, il dubbio è venuto quando ha scoperto che, fuori dalle porte del palazzo d’inverno della comunicazione, una nuova generazione armata di smartphone preme per entrare e fare piazza pulita della precedente. Nel mezzo, va da sé, ci stanno sempre le vigne, la terra, i tini, la vendemmia, la pigiatura, la fermentazione, l’imbottigliamento, l’affinamento, l’etichettatura e tutte quelle belle cose tangibili, diciamo pure palpabili, il cui valore è necessario trasmettere all’esterno. Per non dire del vino. Che, in fondo, alla fine va pure bevuto e come tale “comunicato”. Prospettiva capace di far affiorare alla mente dei coetanei della mia amica anche un altro dubbio, subito pronto però a trasformarsi in speranza: e se i nuovi, asettici social-invasori fossero astemi?

Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 05/2016. Per continuare a leggere acquista il numero nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com. Buona lettura!

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