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Le nostre uve oltremare soffrono di saudade

Le nostre uve oltremare soffrono di saudade

Non tutte le varietà di vite si adattano a qualsiasi contesto climatico. Le uve italiane si mostrano difficili da esportare nel Nuovo Mondo. Tra le autoctone più diffuse all’estero ci sono il Trebbiano toscano in Francia, il Sangiovese e la Barbera in California.

Un approccio disincantato alla diffusione dei vitigni nazionali nei diversi distretti viticoli planetari mostra che tali migrazioni sono state, prima che di natura vitienologica, frutto di moventi geopolitici. Come quando come quando i francesi, nel 1814, forzarono il blocco navale inglese contro la Russia per portare il Veuve Clicquot a San Pietroburgo. L’Italia ai tempi era frammentata; la Spagna aveva interessi politico-economici verso zone tropicali o sub-tropicali; mentre l’area vitivinicola egea era gravata da dominazioni non favorevoli al consumo di bevande alcoliche. Pertanto la prima notorietà internazionale dei vini e delle loro origini era legata a Francia, e in minor misura a Portogallo, con Porto e Madeira.

 

Nell’ecomuseo della cultura del vino della Cantina Dal Pizzul (Brasile) è stato ricostruito un vigneto a pergola trentina

 

Nasce la viticoltura del Nuovo Mondo e s’impongono le bacche di Francia

Le grandi migrazioni dell’Ottocento e del Novecento dall’Italia videro una certa diffusione di vitigni piemontesi e veneti verso le Americhe, senza indurre alcuna “colonizzazione”. In Nord America le malattie fungine, allora sconosciute in Europa, bloccarono il diffondersi della loro coltivazione. Si salvò qualcosa solo in Cile e alle pendici delle Ande argentine. L’affermarsi di una viticoltura del Nuovo Mondo, contrapposta a quella europea, vide l’espansione di enormi bacini viticoli in California, Argentina, Cile, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda. Dove inizialmente furono impiegati quei vitigni che avevano già dimostrato di essere ubiqui: Cabernet, Pinot, Chardonnay, Merlot e, più limitatamente, Syrah, Chenin blanc, Sauvignon blanc e Malbec. Non troviamo ancora vitigni di origine tricolore, a parte alcune generiche cultivar-popolazione quali Greco, Moscato e Malvasia; sia per la loro scarsa notorietà, sia per ragioni genetico-adattative.

Unicità italiana (e il suo limite)

Le varietà italiane stricto sensu sono nate in contesti di micro-aree pedologiche e climatiche. L’Italia ha la più grande variabilità di terroir del mondo, con una conseguente enorme biodiversità genetica, con oltre 2.000 varietà di uva. È vero che i vitigni “fondamentali” sono solo una sessantina, però anche tra questi vige il carattere della bassa propensione a essere coltivati al di fuori delle proprie aree di elezione. Ci furono “sconfinamenti” in aree geografiche limitrofe, accomunate però da caratteristiche pedoclimatiche molto simili: il provenzale Rolle era sempre Vermentino, i corsi Sciacarello e Nielluccio, erano i toscani Mammolo e Sangiovese; sotto l’egida esclusiva di una contiguità geografica (e geopolitica).

 

Trebbiano Toscano, il vitigno italiano più diffuso all’estero

 

Vitigni plastici e non plastici: cosa significa?

Negli ultimi decenni si è giunti alla distinzione fra cultivar “non plastiche” – ossia ubique e capaci di adattarsi a numerosi ambienti senza tradire i rispettivi tratti varietali – e vitigni “plastici”, viceversa fortemente influenzati dall’ambiente di coltivazione. In quest’ultimo caso le uve che ne derivano possono essere anche molto diverse da quelle ottenute negli ambienti elettivi delle varietà, spesso decisamente non soddisfacenti alla produzione di vini di qualità.

L’esempio del Nebbiolo

Ebbene, molti dei nostri grandi vitigni sono estremamente “plastici”. A cominciare dall’ostico Nebbiolo: testato in tutte le regioni vitivinicole mondiali, ha sempre dimostrato una scarsissima adattabilità. Con gradienti diversi, molte nostre grandi varietà non hanno mostrato spiccata adattabilità quando poste in nuovi bacini viticoli. Ne consegue che non ci sono chiari segni di “colonizzazione” di nuove aree viticole da parte di nostri vitigni. Per ora va tenuto in sospeso l’areale cinese, che sta testando gli autoctoni italici; ma è troppo presto per esprimere considerazioni al proposito.

Eppur (qualche vitigno) si muove!

Ciò premesso, il vitigno italiano più diffuso all’estero è l’Ugni blanc (Trebbiano toscano), alla base della produzione del transalpino Cognac. Un’altra bacca italica di un certo rilievo internazionale è la Bonarda argentina, esportata da emigranti piemontesi; in realtà si tratta di Douce noir, in passato diffuso in Piemonte, ma da anni pressoché scomparso dalla regione sabauda. Il Primitivo (Tribidrag), lo Zinfandel californiano, ha trovato una notevole affermazione, anche se di antiche origini, in California, tanto che ce n’è di più che in Puglia. Oggi è presente anche in Messico, e nelle australiane Barossa Valley, Clare Valley, Heathcote, Hunter Valley. L’aumentata notorietà dei vini italiani nel mondo, il ruolo degli immigrati e la ricerca di offerte di prodotti non omologati ha condotto comunque all’esportazione planetaria dei grandi vitigni italiani.

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© Riproduzione riservata - 21/09/2018

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