Il quadro normativo, le prospettive di mercato e l’analisi dei prezzi, gli impatti ambientali e sociali, ma anche l’orientamento dei produttori e dei consumatori e l’ammissibilità in ottica Dop e Igp. Di tutto questo si è parlato a Firenze durante un incontro che ha generato più interrogativi che certezze, ma ha contribuito alla messa a fuoco dei numerosi nodi irrisolti
Da qualche anno il tema del vino dealcolato agita, in egual misura, tanto i mercati quanto il mondo della produzione, dei consumatori e dei media. A tentare di dissipare la nebbia e a fare il punto sullo stato dell’arte è venuto un convegno all’Accademia dei Georgofili a Firenze dedicato al presente e al futuro dei vini No-Lo (no alcol e low alcol). Lo spunto è arrivato dalla presentazione dei risultati del progetto Prin Dewine (Prin sta per “Progetti di rilevante interesse nazionale”: il che la dice lunga sull’importanza attribuita dalle istituzioni alla faccenda), a cui hanno partecipato le università della Basilicata, Foggia, Napoli Federico II e Padova col sostegno di Ceev, Federivini, Uiv e Oiv, Assoenologi e Confagricoltura.
I temi al centro del dibattito
La complessità dell’argomento era ben espressa dal titolo: “Vini dealcolati e parzialmente dealcolati: prospettive di mercato, impatti sociali e ambientali”. Un titolo su cui, alla fine, un po’ a gamba tesa si è inserito anche il filone collaterale del vino “a bassa gradazione naturale”, frutto cioè non di un processo industriale di sottrazione ma di procedimento enologico specifico, portando ulteriore linfa e prospettive al dibattito. Molti gli argomenti sul tavolo: il quadro normativo, l’offerta di mercato dei prodotti No-Lo e l’analisi dei prezzi, l’orientamento dei produttori e dei consumatori, la sostenibilità ambientale del comparto e l’ammissibilità di quei vini in ottica Dop e Igp. Ne è nata una ricognizione a volo d’uccello che forse ha portato più interrogativi che certezze, ma ha contribuito alla messa a fuoco dei numerosi nodi irrisolti.

Lo scenario normativo europeo
«Quello dei No-Lo è un mercato nascente, per il quale si prevedono grandi margini di crescita nonostante la diffidenza con la quale, soprattutto in Italia, sia a livello normativo che di consumo, questi prodotti vengono percepiti», ha esordito il coordinatore del progetto Eugenio Pomarici, dell’Università di Padova. Il quadro normativo generale, ha proseguito, è confuso e lacunoso: la prima legittimazione formale dei vini dealcolati risale alle risoluzioni dell’Oiv del 2012, ma ad oggi non esiste una cornice internazionale di norme sul settore, sebbene nel 2021 la Pac abbia di fatto incluso la tipologia No-Lo tra le produzioni vinicole riconosciute dall’Ue, rimandando all’Oiv la definizione delle pratiche enologiche ammissibili che, però, non hanno ancora visto la luce.
La questione italiana
Nel mentre, Paesi come Francia, Spagna e Germania hanno recepito le norme comunitarie e avviato la produzione e l’immissione sul mercato, cosa invece impossibile in Italia per via delle disposizioni del Testo Unico sul vino, che non prevedono la “autoapplicazione” diretta delle norme Ue in materia. Il risultato è che a noi la produzione di No-Lo è rimasta vietata fino al 2024, quando il Dm 20/2024 l’ha ammessa, ma “in locali separati” dalla cantina, creando così difficoltà pratiche quasi insuperabili per le aziende, le quali sono costrette a far dealcolare all’estero il proprio vino, nell’attesa che vengano emanati i regolamenti necessari a rendere operativo il Dm 14 del 2025, che prevede un lieve allentamento della disciplina. «Ad oggi, la dealcolazione in Italia è ancora molto marginale, nonostante l’evidente interesse manifestato dai produttori, anche piccoli, e dai consumatori», ha concluso Pomarici.
L’indagine sull’offerta e la percezione dei consumatori
È toccato ad Antonio Seccia dell’Università di Foggia riportare i risultati dell’indagine sull’offerta di mercato e la percezione edonica, ossia legata al piacere, dei consumatori. «Il favore per i vini No-Lo nasce ovunque dalla crescente attenzione sociale verso modelli di consumo consapevoli, sebbene con dinamiche diverse da Paese a Paese. Si calcola ad esempio che, in Usa (la piazza più sensibile, con una stima di assorbimento del 63% del totale dei prodotti No-Lo tra il 2024 e il 2028, e un significativo +11% per gli spumanti, ndr), l’incidenza dei vini No-Lo sul totale dei consumi passerà dall’1,2% del 2024 all’1,6% del 2028, con un salto in valore da 2,84 a 7,64 miliardi di dollari statunitensi». Lo studio ha censito i siti internet di 107 aziende produttrici, per un totale di 586 referenze risultate per il 25% prodotte il Italia, per il 25% in Germania e con un’incidenza di vini bianchi del 50%, in gran parte frutto di distillazione.
Cosa c’è da migliorare per valorizzare i prodotti
L’obiettivo dell’analisi era la ricerca di informazioni utili (colore, varietà, origine delle uve, tipologia, gradazione alcolica, tecnica di dealcolazione, prezzo, certificazioni, riconoscimenti, localizzazione delle imprese, canali di vendita, presenza sui social media, portafoglio prodotti) per la determinazione di una soglia di prezzo edonico per il consumatore stesso. «Il risultato è che il mercato dei vini No-Lo premia la trasparenza e gli indicatori di qualità, mentre è penalizzato dalle informazioni incomplete o vaghe che spesso caratterizzano l‘offerta», ha spiegato Seccia. «L’indicazione strategica da dare ai produttori è quindi un invito a investire in certificazioni, in una comunicazione chiara e nell’adozione di opportuni canali distributivi, possibilmente in presenza di un quadro normativo chiaro e comprensibile anche da parte del consumatore».
Il punto di vista dei produttori italiani
Un clima sospeso tra interesse e incertezza legato alle opacità del quadro generale si registra, anche e principalmente, proprio tra i produttori, come sostenuto dalla ricerca illustrata da Adele Coppola dell’Università della Basilicata. L’analisi, condotta su un campione di 177 imprese (ubicate per il 57% al Nord e per il 43% al Sud, dove la produzione non supera però il 33%), mostra che oltre il 60% degli intervistati sarebbe propenso ad avviare la produzione di vini No-Lo, ma anche che il 75% di essi sono grosse imprese e che solo il 50% delle piccole si dichiara apertamente favorevole. Ancora più netti gli orientamenti in materia di propensione agli investimenti: solo il 25% sarebbe disposto ad affrontarli, mentre il restante 75% si affiderebbe a terzisti. Sul piano dei volumi, il 90% sarebbe disposto a produrre vino No-Lo in percentuali tra l’1 e il 5% del proprio totale, nella convinzione che esistano interessanti margini di domanda. «L’elemento che maggiormente influenza i produttori in materia di vini dealcolati sono insomma le aspettative dei vantaggi economici che ne potrebbero trarre», ha concluso Coppola.
La propensione dei consumatori
Ma qual è il sostanziale atteggiamento dei consumatori verso questi prodotti? «Un atteggiamento ondivago, determinato nel bene dalla curiosità e nel male dalla scarsità delle conoscenze, il livello delle quali influenza molto gli atteggiamenti finali. E in genere la giovane età, la possibilità di assaggiare e di avere informazioni sul vino risultano decisivi in positivo», ha provato a sintetizzare nella sua relazione Fabio Verneau dell’Università di Napoli Federico II. La complessa indagine, condotta su 3.000 persone suddivise tra Italia, Germania, Francia, Uk, Usa e Giappone e basata su diversi fattori (età, sensibilità agli aspetti salutistici, frequenza di consumo, sesso), ha avuto un’appendice nel nostro Paese allargando il test a stimoli di scelta differenziati (degustazione, informazioni fornite sul prodotto prima o dopo l’assaggio, esame della bottiglia e dell’etichetta, etc). In generale, l’indagine ha rivelato che da un lato le intenzioni di consumo sono ancora tendenzialmente basse (3,1 su una scala di 7, a prescindere dal prezzo del prodotto, il quale più sale e più risulta penalizzante, portando il consenso a 2,6 su 7), sebbene nessuno, dall’altro, abbia espresso una disponibilità “zero”. Significativa anche la diversa percezione del vino dealcolato, assimilato concettualmente a un soft drink e meno gradito in contesti di forte tradizione vinicola, rispetto a quella del vino parzialmente dealcolato, visto invece come un accettabile “compromesso” rispetto al vino tradizionale.
Vini dealcolati e sostenibilità ambientale
Note dolenti sono venute dallo studio di valutazione della sostenibilità ambientale dei vini No-Lo di Maurizio Prosperi (Università di Foggia), basato sulla comparazione di diversi scenari tecnologici e logistici. L’attuale dispersione geografica della produzione fuori dai confini nazionali, che per il trasporto comporta il ricorso a combustibili fossili, rende critica la questione, finendo per impattare anche sulle valutazioni economiche finali. A ciò si aggiungono le considerazioni negative in rapporto all’alto assorbimento energetico da parte delle tecnologie di dealcolazione. «Occorre distinguere tra vari scenari», ha sottolineato il professore. «Uno basato sulla dealcolazione effettuata all’estero e il recupero della miscela di risulta, uno che preveda invece piccole strutture di prossimità e lo smaltimento della miscela in loco, un terzo che benefici di metodi di vinificazione alternativi specifica per i low alcool e, quarto, la dealcolazione totale di questi ultimi». Combinando i principali fattori di impatto ambientale (global warming, consumo di acqua e utilizzo di combustibili fossili) impliciti nei diversi metodi, si ottengono tuttavia risultati convergenti: la produzione di dealcolati solleva ad oggi indubbie preoccupazioni di sostenibilità, sia perché accresce il ciclo di vita del vino e i relativi “passaggi”, sia perché ad oggi non può contare su economie di scala e tecnologie alternative.
Verso l’introduzione parziale nei vini Dop e Igp?
Non meno articolato il quadro emerso dalla relazione di Elisa Giampietri dell’Università di Padova, che ha presentato un’indagine su fattibilità, criticità e prospettive dell’introduzione della dealcolazione parziale nei vini a Dop e Igp italiani svolta attraverso un panel calibrato di esperti appartenenti a diverse categorie del settore vitivinicolo (consorzi, associazioni di categoria, organismi di decisione e di certificazione, media e stampa, ecc), con l’obiettivo di analizzare il loro livello di accettazione e di individuare il contenuto minimo di alcol ritenuto compatibile con la qualità e l’identità del prodotto. Il risultato si sdoppia: favore verso l’idea di vini No-Lo a Igp, forte perplessità, se non aperta contrarietà, verso i vini No-Lo a Dop. Per i parzialmente dealcolati, l’orientamento maggioritario è per una gradazione minima di 6°, da stabilire a cura di una governance multilivello (consorzi, norme locali e nazionali).
I vini naturalmente a bassa gradazione
Se però a nessuno degli attori interpellati sono sembrate sfuggire le opportunità e le necessità dettate dalle prospettive di mercato dei vini No-Lo (ad esempio in rapporto al costante calo dei consumi), sono state molte le criticità evidenziate: perdita di qualità sensoriali, tipicità e identità, frammentazione normativa, mancanza di standard condivisi (ad esempio sulle etichette) e asimmetrie competitive tra Paesi e tra produttori. L’alternativa sarebbe, hanno concluso gli intervistati, giungere alla produzione di vini naturalmente a bassa gradazione. Un’ipotesi che si scontra però, è stato realisticamente ammesso, con la necessità di individuare adeguate tecniche agronomiche e enologiche in un trend climatico sfavorevole e con la difficoltà di mantenere ai vini siffatti una stabilità ed un profilo sensoriale adeguati.