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La mia vigna per un video (virale)

29 Maggio 2017 Stefano Tesi
Ai miei tempi, di virale c’erano solo raffreddore e influenza. Da un po’, invece, ci sono anche i video che, grazie al volano della rete, diventano in pochi minuti fenomeni sociali. Anzi, “social”. Con decine di migliaia e a volte milioni di “visualizzazioni”. Chi è un po’ snob, tipo me, direbbe: «Ma perché negare a qualcuno i suoi quindici minuti di popolarità?». E qualcun altro più scafato risponderebbe subito, tacitandomi: «Perché spesso in quei video non c’è alcuna ricerca di popolarità innocente ed effimera, ma un preciso calcolo mediatico e pubblicitario». Chapeau: è vero. Per carità: niente di nuovo sotto il sole. Mezzo secolo fa, al festival di Cannes, le starlette o aspiranti tali attendevano il momento propizio per darsi in pasto, ovviamente nude, all’obbiettivo dei paparazzi. I quali non aspettavano altro.

Dai nudi di Cannes ai video su Facebook

Oggi che un paio di tette non scandalizzano più nessuno, invece, le signorine disposte a mettersi in mostra dal vivo su Facebook (quasi sempre vestitissime) abbondano. E, in omaggio alla parità di genere, anche i signorini. Pur di avere qualcosa da pubblicizzare, si capisce. E nella speranza di divenire “virali” o almeno “cliccatissimi”, che poi è la medaglia d’argento della popolarità in rete. Nemmeno il mondo del vino poteva sfuggire a questa sindrome. E infatti internet è piena di gente che, in cerca di visibilità, straparla del vino proprio e (dietro compenso, spesso lauto) di quello altrui. Certo, sono ormai lontani i tempi di certe lezioni didascaliche e seriose, delle affabulazioni soporifere. Oggi si gioca tutto sulla naturalezza, su una spigliatezza informale che, però, è a volte pericolosamente anche a cavalcioni del ridicolo.

Ma davvero sono utili?

Sono molte insomma le domande che come una nube avvolgono l’enomondo digitale e che sarebbe opportuno farsi a proposito di questa tendenza, solo in apparenza bagatellare. Ad esempio: cosa spinge un rubizzo vignaiolo, goffo nell’eloquio e nell’aspetto, a mettersi alla berlina da solo davanti a una telecamera? Sì, perché spesso l’effetto è quello. E una diafana viticoltrice a camuffarsi da vamp cinguettando di tannini, dati sull’export in India e abbinamenti gastronomici sullo sfondo della propria cucina? In nome di cosa un brillante e serio imprenditore si trasforma in un patetico imbonitore vernacolare? No perché, d’accordo, facciamo anche la tara sui commenti pecorecci e gli inevitabili post dileggiatori che seguono a certe esibizioni, ma davvero tutto ciò porta a qualche vantaggio commerciale o almeno promozionale?

Il rischio è mettersi in ridicolo

In parte sì, non c’è dubbio. Soprattutto per i prodotti più dozzinali o popolari. Per tutto il resto, però, sono assai meno sicuro dell’efficacia del metodo. Ci vuole infatti un certo coraggio, per chi non fa spettacolo di mestiere, ad affrontare la serietà dei rapporti di lavoro di tutti i giorni dopo aver sfarfalleggiato in video. E non sono affatto convinto che, per il consumatore evoluto o anche solo avveduto, vedere il proprio vino preferito al centro di spottoni kitsch fatti in casa sia proprio rassicurante. Non parliamo di importatori, distributori, giornalisti. Già, i giornalisti. Nemmeno loro sono immuni dalla pericolosa epidemia. Anzi. Qualcuno sa farlo, qualcuno no. Ma soprattutto qualcuno lo fa per informare e qualcun altro per pubblicizzare. Cosa che sarebbe proibita. E così ecco che spesso la frittata è fatta: il wine writer voleva finire tra i “cult”, ma sbaglia i congiuntivi e finisce tra i “blob”. Virali, si capisce.  
Questo articolo è tratto da Civiltà del bere 01/2017. Per leggere il numero acquistalo nel nostro store (anche in edizione digitale) o scrivi a store@civiltadelbere.com. Buona lettura!

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