Storie di vigna. Il tempo si è fermato a López de Heredia
In un caldo principio di ottobre vagabondavo nel Nord della Spagna, con Sancho Panza, alla ricerca di storie, che sono poi divenute frammenti di un discorso iberico, in pubblicazione sulle pagine di Civiltà del bere. Penedès, Aragona, Ribera del Duero, e naturalmente Rioja, la Bordeaux di Spagna. Qui avrei assicurato il mio cavallo, se ne avessi avuto uno, alle pareti dei López de Heredia. Cercavo una cantina storica, ho incontrato la storia. “Esagerato!”, direte voi, se non siete mai passati da queste parti. Fondata nel 1877 da Rafael López de Heredia, c’è un particolare che distingue questo luogo dalle cantine, talvolta più antiche all’anagrafe, di Francia, Germania o Italia. Tutto è rimasto apparentemente come allora.
A López de Heredia come cento anni fa
Se non fosse stato per le energiche signore López de Heredia, atomi in procinto di una fissione nucleare, cioè Mercedes (l’enologa) e Maria José (la responsabile commerciale), in tenuta da lavoro contemporanea, avrei creduto davvero di essere sceso dal destriero direttamente nelle pagine di un romanzo. Qui l’immutabilità è un culto. L’energia elettrica è stata vissuta, parrebbe, come una violenza. L’avo Rafael, d’altronde, aveva pensato a tutto, e i posteri (oltre alle sorelle, c’è Julio, l’agronomo) sono davvero custodi del passato, non per vezzo retorico come ormai si ripete in ogni cantina del mondo, anche nata l’altro ieri.
Il gioiello di famiglia è Viña Tondonia
Siamo arrivati nel momento peggiore per un winemaker, durante la vendemmia. Ma non sembra un problema per le sorelle “Tondonia”. Prendo il soprannome dal gioiello di famiglia, quella Viña Tondonia, cioè tonda, di 110 ettari conquistati a fatica in 138 anni. Ancora non l’hanno ottenuta tutta, poiché alcuni contadini non mollano i loro pezzetti e tengono i prezzi alle stelle. Non importa, le nostre fantastiche guide ci mostrano le comporta, nelle quali i vendemmiatori trasportano l’uva sulle spalle. Sono ceste di pioppo, che è un legno leggero, e sono centenarie pure quelle. Come le botti, che – manco a dirlo – sono di “ennesimo” passaggio; tutto è fabbricato e restaurato nella falegnameria di famiglia, in un’ala del medesimo edificio.
Vino naturale nella cantina museo
L’unica concessione alla modernità, con stacco deciso nell’architettura contemporanea, è la dépendance a forma di caraffa creata da Zaha Hadid che accoglie i turisti nella sala degustazione. Quando passi l’avveniristico portone, però, t’accorgi subito della realtà, perché il bancone è l’elegante, vezzoso, stand in stile déco che il fondatore aveva fatto costruire in occasione dell’Esposizione Universale di Bruxelles del 1910. Con un balzo ti trovi nella cantina di vinificazione, e pensi d’essere in un museo. Peccato che tutto sia invece operativo, anzi ascoltiamo e annusiamo i mosti in fermento, Maria Josè ci avvicina a una delle botti e ci parla del miracolo di questa vendemmia, «la più calda della storia». Miracolo perché temevano che il livello zuccherino delle uve, e la concentrazione eccezionale del mosto, potesse porre per la prima volta qualche problema di fermentazione, anche perché, qui, è tutto naturale, con una sola piccola concessione alla solforosa, ma «poca poca».
Lieviti indigeni, solo legno. Come cento anni fa
«We trust», ci crediamo, è ciò che ripete spesso Maria José. In Dio? Forse anche, ma certamente nel vino naturale: «I nostri lieviti indigeni provengono dalle nostre vigne e dalla nostra cantina, sono abituati a fermentare ad alte temperature». D’altronde qui usano solo botti di legno, non vasi d’acciaio inox termocondizionati, per cui regolare la temperatura è difficile. «Noi l’abbassiamo come sempre, cioè spalancando le porte della cantina. Il nostro avo l’aveva pensata bene: c’è una buona corrente… Sì, in effetti ci considerano un po’ pazzi, vinifichiamo come cent’anni fa».
Una pratica macabra?
Tra le pratiche ereditate dalla storia, le López de Heredia ci spiegano anche come curano le botti, che a fine fermentazione vanno liberate dai tartrati e dai vinaccioli: si scaldano gentilmente le pareti (con pastiglie di zolfo), per evitare contaminazioni, poi si usa il sangue per reidratare le pareti. «Sangue?!», faccio un balzo indietro, a una certa distanza da Maria José. «Sangue in una mistura floreale. È normale, si usava sempre… il sangue è ricco di proteine. Animale, ovviamente. Una volta lo si usava anche per la stabilizzazione del vino, prima del bianco d’uovo. Certo ora è più complicato, dopo la mucca pazza i controlli sono severi…».
Le 18 annate di Viña Tondonia. In uscita la 1995
Pratiche arcaiche, sembrerebbe. L’atmosfera delle gallerie sotterranee non è da meno: il paradiso per gli appassionanti che continuano a vedere la cantina come un luogo che affonda nel passato (anche remoto) e rimangono delusi di fronte ad esibizioni tecnologiche. In questo luogo si stanno lentamente affinando nelle botti 18 annate di Viña Tondonia, altre attendono nelle loro bottiglie di essere immesse sul mercato. Oggi si può acquistare l’annata 1994 della Gran Reserva Viña Tondonia, poi uscirà il 1995 e poi bisognerà aspettare… perché la successiva annata considerata “degna” della Gran Reserva è la 2001. È già stato stabilito che la 2005, ottima annata, uscirà nel 2025. “La storia è madre della verità, emula del tempo, depositaria delle azioni, testimone del passato, esempio e annuncio del presente, avvertimento per il futuro”. Così scriveva Miguel de Cervantes nel suo Don Chisciotte agli albori del diciassettesimo secolo. Ci saremmo aspettati di trovare questa citazione scolpita sul portone di Tondonia. Riemergiamo dal passato, saltiamo in sella e procediamo il nostro viaggio nel tempo.
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